La foresta dei sogni, dal romanzo di Matsumoto al caso Logan Paul
Il Giappone è un paese che ha sempre dato un peso notevole alla ritualità.
Eventi, usi, costumi, abitudini, credenze, tradizioni sacre e profane, ogni aspetto della vita quotidiana è celebrato con feste e ricorrenze che fanno del calendario nipponico un elenco infinito di appuntamenti.
Ritualizzare un gesto, una consuetudine, una memoria significa codificarli tramite una ripetizione fissa che ne stabilizza il significato, rendendoli doni perpetui da consegnare alle generazioni future. D’altronde, la cultura del Sol Levante è una di quelle che da sempre dedica una cura particolare alla memoria e, ancor di più, alla trasmissione ereditaria del patrimonio storico, culturale e folkloristico.
Riti che celebrano la vita, in tutta la sua forza e in tutta la sua contagiosa energia. Altri riti che, invece, hanno come protagonista la morte. E non solo per esorcizzarne la paura.
Nazione fortemente influenzata dalla cultura e dalle tradizioni samurai, il Giappone d’epoca moderna ha ereditato molte delle usanze dell’antica società guerriera che ha scritto gloriose pagine della storia del Lontano Oriente. Tra queste consuetudini, una delle più celebri è il suicidio rituale, il seppuku (o harakiri – la differenza, meramente linguistica, si basa sulle due diverse pronunce, giapponese e cinese, degli ideogrammi): per espiare una colpa terribile o fuggire da una morte disonorevole, i samurai decidevano di togliersi la vita, osservando un rito che presentava uno svolgimento ben preciso.
Seduto nella tradizionale posizione giapponese (seiza), in ginocchio con le punte dei piedi rivolte all’indietro, il samurai, con un apposito pugnale, si procurava un taglio nell’addome (da sinistra verso destra), mentre un compagno, il kaishakunin, gli dava il colpo di grazia decapitandolo.
La motivazione di una simile procedura è presto spiegata. Secondo la cultura giapponese, il ventre è la sede dell’anima e, tagliandosi l’addome mediante seppuku, non si fa altro che liberarla mostrandone a tutti i presenti la purezza e dando prova, in tal modo, di assoluta innocenza e onore. Perché, dunque, la decapitazione? Ebbene, il ruolo del kaishakunin era fondamentale per un semplice motivo: appena inferta la ferita, il compagno doveva tagliare la testa all’amico per evitare che il dolore gli sfigurasse il volto. Un gesto cruciale per liberare l’uomo dalle sofferenze e che quindi richiedeva un’eccezionale abilità con la katana (un colpo impreciso avrebbe infatti acuito ulteriormente il dolore dell’amico).
Nonostante il Giappone sia ancora oggi uno dei paesi con il maggior numero di suicidi al mondo, i casi di seppuku, negli ultimi anni, sono diventati estremamente rari. Dalla morte dello scrittore Yukio Mishima nel 1970, l’unico caso che ha avuto un certo clamore mediatico è stato quello di Isao Inokuma, celebre judoka, oro olimpico a Tokyo 1964, che si è tolto la vita nel 2001, probabilmente in seguito al fallimento della propria azienda.
La ritualità del gesto, però, non è stata del tutto dimenticata, assumendo una nuova forma e un nuovo, inquietante, aspetto: quello della foresta di Aokigahara, anche nota come “il mare di alberi” (Jukai) o, per l’appunto, la “foresta dei suicidi”.
A circa cento chilometri da Tokyo, la foresta riposa ai piedi del Monte Fuji, estendosi, a nord-ovest, per circa 35 km2 ed è tristemente salita alla ribalta per i numerosi casi di suicidio che si verificano, da almeno due secoli, al suo interno.
La storia di Aokigahara inizia nell’anno 864, quando il monte Nagaoyama, un vulcano “parassita” del Monte Fuji, erutta, depositando nell’area circostante materiale lavico che, solidificando, crea un terreno cavernoso, su cui cresce una vegetazione sempre più fitta. Conifere, cipressi, querce e arbusti, così vicini da frenare l’azione del vento e rendere la foresta un luogo estremamente silenzioso e claustrofobico: un labirinto di alberi, caverne e rocce da cui è quasi impossibile trovare una via d’uscita.
Ciò nonostante, la foresta è ancora oggi meta particolarmente frequentata dagli escursionisti che, per non perdere l’orientamento, tracciano il loro percorso legando del nastro adesivo di albero in albero.
A partire dal XIX secolo, però, la storia di questa riserva naturale inizia a tingersi di nero, rivelando uno stretto legame con la morte e, in particolare, con il rituale del suicidio. Risalgono, infatti, a quell’epoca i primi casi di ubasute nella foresta: a metà tra leggenda e realtà, l’ubasute era la consuetudine, in voga nell’antico Giappone, di lasciar morire, di propria spontanea volontà, un membro anziano della famiglia in una località remota. Praticata in caso di carestia e siccità per non gravare eccessivamente sugli altri membri della comunità, l’ubasute non sembra essere stata un’usanza poi così diffusa.
Resta il fatto che i primi ritrovamenti di cadaveri nella foresta non hanno fatto altro che alimentare le prime leggende attorno ad Aokigahara. Si dice, infatti, che tutti gli anziani morti nella foresta si siano trasformati in yūrei, “spiriti arrabbiati”, anime incapaci di lasciare definitivamente il mondo dei viventi e di godere della pace dell’aldilà. E proprio questi fantasmi infesterebbero Jukai, tormentando i visitatori e impedendo loro di trovare la via d’uscita tra i fitti e imponenti alberi della foresta.
La leggenda degli yūrei ha contribuito solo in parte alla popolarità di Aokigahara. È stata soprattutto la letteratura a farne un fenomeno di massa: il romanzo di Seichō Matsumoto, Nami no tō, pubblicato nel 1960 e ambientato proprio nella foresta, narra le sfortunate vicende di due giovani amanti che finiscono proprio per togliersi la vita.
E non è certamente un caso, se, dopo l’uscita e la diffusione del romanzo, i suicidi ad Aokigahara si sono fatti sempre più frequenti e numerosi. Si stima che, a partire dagli anni ’50 e ’60, se ne siano verificati circa trenta ogni anno. Una tendenza che è destinata a crescere, se è vero che, dagli anni 2000, si sono tolte la vita almeno cento persone all’anno. Impiccagione e overdose di farmaci i metodi più utilizzati. Indebitamento e difficoltà finanziarie sono indubbiamente le cause principali, se si pensa che il picco di suicidi è a marzo, termine dell’anno fiscale in Giappone.
Ragionare per numeri ha spesso un duplice effetto: da un lato, contribuisce a rendere alla perfezione la portata di un determinato fenomeno, dall’altro, però, ne riduce parzialmente l’impatto emotivo trattando il caso come una mera questione matematica. Ecco allora che, laddove non può la statistica, intervengono i media: l’industria cinematografica prima, la rete poi.
La Foresta dei sogni, film del 2015, diretto da Gus Van Sant, è probabilmente il prodotto mediale con protagonista Aokigahara che ha avuto la maggior influenza sul pubblico. Un lungometraggio che si distacca dalle produzioni horror precedenti e successive (Grave Halloween, 2013 e Jukai – La foresta dei suicidi, 2016), proponendo il dramma di un uomo che trova nella foresta un’insperata via di fuga al senso di colpa e alla depressione.
Arthur Brennan, interpretato da Matthew McConaughey, è un uomo che lotta contro i fantasmi di una vita e di un matrimonio apparentemente fallimentari. Dopo la tragica scomparsa della moglie Joan, Arthur decide di recarsi ad Aokigahara per togliersi la vita. Inoltrandosi nella cupa densità del bosco, il protagonista scorge dapprima cartelli che invitano a non togliersi la vita (cartelli che sono stati realmente posizionati dai ranger in seguito all’aumento dei suicidi), poi i nastri lasciati dagli escursionisti per non perdere la via d’uscita. Prima che possa ingerire una quantità letale di farmaci, Arthur s’imbatte in un uomo, smarritosi nella foresta, dopo aver tentato, senza successo, di togliersi la vita tagliandosi i polsi. La scelta iniziale di Takumi Nakamura, declassato al lavoro e ferito nell’orgoglio, non è che il lascito della tradizione samurai: l’abbandono della vita in seguito a una colpa o a un forte disonore.
La ricerca della via d’uscita è anche per Arthur una metaforica liberazione dai fantasmi della disperazione e della depressione. L’esperienza nella foresta diventa, così, espiazione della colpa per il protagonista, che trova nell’isolamento forzato e nella claustrofobica reclusione in un ambiente sconosciuto l’occasione per ottenere una personale catarsi rispetto al dramma della sua vita e del suo matrimonio con Joan.
Redenzione che si fa esplicita con la rivelazione finale: Takumi non è altro che l’incarnazione dello spirito della moglie, che ringrazia Arthur per essersi preso cura di lei e se ne va, lasciando un fiore tra le rocce di Aokigahara.
Che si tratti di fiction o di documentari, di romanzi o di reportage giornalistici, il cinema e la letteratura applicano, per loro stessa natura, un filtro a tutto quello che mostrano al pubblico. Assumendo un particolare tono, adottando una certa inquadratura, lo scrittore e il regista dipingono e ritagliano la realtà in maniera soggettiva, veicolando, insieme alle immagini reali, un messaggio denso di significati.
Internet, invece, non ha questo potere. Pur con tutti i suoi pregi, in termini di libertà d’espressione e di fantasia nella creazione di contenuti, la rete non applica nessun filtro alla realtà, ma la mostra così com’è. Da ciò ne consegue che l’unico modo per introdurre un argomento “sensibile” sia di offuscarne gli elementi più intensi, cedendo così alla censura e contraddicendo il principio stesso di libertà da cui nasce la rete.
Può succedere, però, che la volontà di mantenere una distanza rispetto alla crudeltà del Reale venga meno e che l’osceno finisca per essere esibito senza filtri. È il caso della pornografia, dei siti splatter, del dark web. Ma è anche quello che è accaduto a un famoso youtuber statunitense, Logan Paul, che ha avuto l’idea di avventurarsi nella foresta di Aokigahara e di girarci un vlog. Conoscendone la fama, non si può dire che imbattersi in un cadavere fosse di certo un evento improbabile.
La baldanza e la boria del giovane in cerca di una bravata vengono meno di fronte allo shock. Eppure – e qui la cosa si fa tanto sorprendente quanto inquietante – l’occhio della videocamera non si chiude: la registrazione prosegue con il primo piano delle mani violacee di un giovane suicida, disturbato dalle urla e dalle espressioni di stupore dei protagonisti. La solitudine e l’intimità più inattaccabili vengono violate da una mano che registra: cade il filtro dello storytelling ed emergono con prepotenza le pretese espansionistiche del virtuale sugli orrori e sui segreti ancestrali del reale.
È la riproduzione dello squallore di una morte privata della propria solitaria dignità, l’esercizio osceno che intacca la sacralità e la ritualità del gesto, negando a un intero popolo il conforto della tradizione, necessario per la purificazione dal lutto.