A Invercargill non c’è granché da vedere. Sarei disonesto se vi dicessi il contrario.
Avete presente una di quelle città ammorbate dal silenzio dove le luci sono così piatte e tenui che ogni cosa sembra coperta da una patina di mediocrità? Ebbene, nella capitale del Southland tutto è così tristemente normale che pare soffocare sotto un alone di polvere e inedia.
Ma permettetemi di fare un passo indietro.
Sono i primi giorni di giugno e l’inverno è già di casa nella selvaggia isola Sud della Nuova Zelanda. Diventa sempre meno raro trovare cumuli di neve nei giardini, segno inequivocabile del gelo che scende dalle montagne. Per combatterlo, i camini rilasciano continuamente bianche cortine di fumo che si disperdono nel vuoto. Il numero di berretti, sciarpe e trapunte di lana aumenta in proporzione al calo delle temperature. In questa cornice di immota bellezza, la grande macchina del turismo invernale si è già messa in moto e i resort sciistici, presi d’assalto come biglietterie fuori San Siro prima del derby, hanno ormai esaurito i pass stagionali.
All’alba, Queenstown sonnecchia, intrappolata in cristalli di ghiaccio così duri da resistere facilmente alle prime luci del mattino. In casa si respira un’aria distesa, malgrado il clima rigido all’esterno. Osservo dalla finestra il cielo tingersi d’un rosa appannato. Nel frattempo scruto l’orologio in attesa dei miei compagni di viaggio.
Mentre verso del tè bollente nella tazza, ripenso a quello che mi attende. L’ultima scampagnata prima dell’addio. Dovendo rassegnarmi all’ineluttabile, cerco una via di fuga dall’incombente depressione e, per un attimo, mi sento pervaso da un inaspettato senso di completezza. Dopotutto, non mi resta molto da fare: archiviata quell’ultima fuga, avrei potuto dire di aver visto tutto il meglio che il Sud potesse offrire. Dal cristallino lago Wakatipu al tenebroso Milford Sound, dalle spiagge bianche dell’Otago Peninsula ai ghiacci perenni di Aoraki. L’isola era un ricco forziere che già molto mi aveva mostrato dei suoi tesori. E come renderle giustizia se non sprofondando, un’altra volta ancora, nella sua indomita natura?
Quel giorno, io e altri quattro inquilini avremmo percorso una lunga strada verso l’estremità meridionale del paese, in un ambizioso tentativo di raggiungere l’ultimo avamposto di terra prima dell’oceano e dei ghiacci. In questa discesa agli antipodi, i pascoli del Southland avrebbero anticipato il nostro arrivo a Invercargill, cittadina dal fascino celato, e la successiva deviazione verso la frastagliata costa dei Catlins, con i suoi temerari bastioni di roccia a spuntare tra le onde. Con un po’ di fortuna ci sarebbe stato tempo anche per attendere il tramonto e, insieme, la resa dei conti con i rari pinguini dagli occhi gialli, a lungo cercati e ancora lontani dal mostrarsi.
Torniamo a noi, dunque, e alla poco entusiasmante Invercargill.
Ci arriviamo a metà mattina. Gli zaini pieni di cibo e bottigliette d’acqua, gli occhi altrettanto carichi di belle speranze e aspettative da ripagare. Il mattino soleggiato sembra voler alimentare il nostro entusiasmo, così, a spron battuto, percorriamo una lunga via centrale. Dalla periferia siamo catapultati in un batter di ciglia nel centro. Ai palazzoni della zona industriale, ai grandi magazzini e alle stazioni di servizio, subentrano le insegne vistose di negozietti, bar, ristoranti e uffici. Di tanto in tanto, una rotatoria, con fontana o statua annessa, interrompe la monotonia del reticolato di vie parallele e perpendicolari. Le case, piatte e colorate, sembrano rivelare l’anima di una città in perenne stand by. Una città che va avanti senza scossoni, che vive una vita tranquilla, che si fa i fatti suoi, insomma.
E, se potessi dare credito alle mie prime impressioni, direi che Invercargill e la sua gente sembrano proprio vivere sotto una cupola di pacifica indifferenza. D’altronde la notorietà di quest’agglomerato di cinquantamila abitanti è poca cosa. Sarebbe impresa assai ardua redigere una cronaca degli avvenimenti di maggior interesse. Basti pensare che il tutto può essere riassunto a un bel film e a una pessima battuta di Keith Richards.
Il primo è Indian – La grande sfida, un lungometraggio biografico del 2005, diretto da Roger Donaldson, con il sempre strepitoso Anthony Hopkins nei panni dell’ambizioso motociclista Burt Munro. Un delizioso prodotto del cinema contemporaneo, passato, forse indebitamente, in sordina. Di certo non è per questo film che ricordiamo Sir Hopkins. Immaginate di aver appena visto per la prima volta Il silenzio degli innocenti. Sconvolgente, traumatico, sempre sul filo dell’alta tensione. Bene, ora figuratevi il dottor Hannibal Lecter tutto preso a perfezionare una motocicletta nell’officina di una modesta casa di periferia in una città dimenticata da Dio. Entusiasmante, vero?
Al di là della facile ironia, il lavoro di Donaldson è ottimo e dipinge alla perfezione la passione di Munro per la velocità. Altrimenti non si spiegherebbe perché, a tredici anni di distanza dall’uscita nelle sale, i locali continuano a pubblicizzare il film ai numerosi turisti.
Il secondo evento d’un certo peso nella storia di Invercargill risale a un concerto dei Rolling Stones nel 1965. In quell’occasione, il chitarrista della band americana – o forse fu il frontman Mick Jagger, le cronache sono discordanti – apostrofò la città come “il buco del culo del mondo”. Ora, non si può dire che Invercargill sia l’Eden fatto e finito, ma da qui ad attribuirle simili epiteti ne passa. Anche perché, io credo, il Brutto, così come il Bello, ha un che di relativo. Non dico che non esistano luoghi brutti in assoluto, ma, a confronto di una Segrate qualsiasi, Invercargill sembra Parigi nella Belle Époque. Per dire.
D’altro canto, tornando alle vicissitudini del giorno, abbiamo noi stessi la possibilità di smentire quell’indelicata battuta. Passeggiando tra le statue e le fontane di Queens Park, una riserva che si estende per ottanta ettari appena fuori dal centro, siamo piacevolmente sorpresi da un delizioso quadretto. Tra i fusti nodosi e le viti rampicanti, veniamo accolti nel polmone verde di Invercargill: roseti, azalee, giardini giapponesi, piante tropicali, felci e querce. Qui trionfa un’eleganza vittoriana, impreziosita da sofisticati rimandi al neoclassico e da orgogliose testimonianze della biodiversità locale. Un crescendo di estasi visive che, su passerelle adornate di flora rigogliosa, ci accompagna fino al cuore del parco. Su un ponticello di pietra, attraversiamo uno stagno d’acqua verde, dove si stendono fiori galleggianti e ninfee, in un quadro che ricorda i capolavori della pittura en plein air. Colori vividi e intensi, dettagli sorprendenti, impressioni di un’inaspettata intimità con la natura.
Poco oltre, ci fermiamo ad ammirare le statue marmoree di animali selvatici, come i ruvidi tuatara – rettili autoctoni, molto simili a iguane, ma di poco più grandi di comuni lucertole –, grosse foche e leoni marini. Per noi che quegli animali li abbiamo visti in carne e ossa, i monumenti appaiono come un sentito omaggio alla ricca fauna del Southland e dell’intera nazione. Maestosi e fieri, sembrano voler celebrare la longevità di un ecosistema che, sebbene appaia florido e intatto, non potrà mai essere completamente al sicuro, finché ci sarà l’uomo a minacciarlo.

«Andate a Bluff, poi da lì prendete il ferry per Stewart Island!»
«Non so se avremo tempo…»
«Sì, ma voi andate a Bluff».
«Ma non abbiamo…»
«Andate a…»
Non saremmo andati a Bluff. Malgrado (e forse causa) l’insistenza di una fin troppo espansiva barista, siamo costretti a rinunciare alla vista di buffi kiwi che zampettano all’aria aperta. Abbiamo ancora molta strada da percorrere e il tempo per approdare sulla terza isola del paese – la più misteriosa e primitiva, nonché la sola priva di highways – semplicemente non c’è. Poco più a est ci aspetta lo scenario costiero dei Catlins e, soprattutto, il tanto atteso incontro con i pinguini degli antipodi.
Il vento gelido del Sud ci accompagna per tutto il viaggio, quasi a volerci sospingere verso la meta. Sbirciando fuori dal finestrino, osservo il lento mutare del paesaggio: da floride campagne e pascoli di ovini a candide spiagge deserte, da macchie di bush nativo a promontori rocciosi ed erte scogliere.
La Southern Scenic Route è molto più di una semplice strada. È una discesa verso l’ignoto. Il simbolo di una progressiva presa di coscienza. L’immersione graduale nelle atmosfere australi. Nel corso di questa romantica fuga verso la conoscenza, mi sento come una matricola al primo giorno di università. Disorientato e in perenne imbarazzo di fronte a qualcosa di completamente nuovo e molto più grande di me. Arrivo, così, intimorito e impaziente al tempo stesso, alle porte di Nugget Point.
Circa otto chilometri a sud dal minuscolo centro di Kaka Point – che prende il nome da una specie nativa di parrocchetto dal piumaggio bruno e rossiccio -, un alto promontorio si erge a ricevere le rabbiose correnti del Pacifico Meridionale. Completamente ricoperto di cespugli e spinifex, Nugget Point sorge su una collinetta dominata da un bel faro bianco, che si erge, solitario, in cima a uno sperone di roccia. Ultimo segnale della presenza umana prima dell’oceano nero e gelido, la lighthouse è raggiungibile percorrendo una via sterrata delimitata da una bella staccionata che la separa dalla vegetazione bassa. In certi punti, il sentiero si fa esposto e subito si percepisce un forte senso di vertigine guardando il fianco che scende ripido.
Ciò nonostante, la via è una comoda passerella verso il traguardo, da cui è possibile osservare lo spettacolo naturale del posto, sintesi perfetta del paesaggio aspro dei Catlins. Sotto il faro, infatti, la scogliera scende decisa verso l’oceano. Una spianata erbosa separa la roccia dall’acqua, nel cui mezzo si stagliano scogli imponenti e aguzzi. Saranno almeno una decina, di dimensioni e forma differenti. Mentre io mi perdo a fissare le onde che schiumano contro le rocce, alcuni dei miei compagni di viaggio scendono dal pendio e s’incamminano verso l’estremità del promontorio in cerca di un contatto ravvicinato con l’oceano.
A quel punto, la mia vista si perde sulla cima di uno dei suddetti scogli. Una macchia nera sembra muoversi in modo convulso e irregolare. Incuriosito, monto il teleobiettivo sulla fotocamera e mi aiuto con lo zoom per osservare meglio. Il punto è troppo lontano per essere messo perfettamente a fuoco, ma qualcosa riesco a intravedere. La macchia pare una colonia di uccelli dal manto nero e dal ventre bianco che per tornare in acqua non spiccano il volo ma si tuffano lasciandosi cadere. Se è vero che due indizi fanno una prova, allora quelli devono essere pinguini! In Nuova Zelanda, sono i soli uccelli che non volano. Se escludiamo i kiwi, naturalmente. Ma qui siamo ben lontani dalle rigogliose foreste di bush in cui si nascondono quei bizzarri animaletti notturni. Allora, forse la mia ricerca è giunta a buon fine. Forse il tanto agognato incontro è avvenuto per davvero. Entusiasta, mostro la fotografia ai miei amici, i quali, dopo un rapido conciliabolo, mi danno ragione.
È finita. Ce l’ho fatta. Anche se da lontano e con l’aiuto di uno zoom da 400 mm, li ho visti. Sfocate macchie nere che mettono il punto sulle mie ambizioni e che danno un senso al mio peregrinare. È finita sul serio.

Il sole cala rapidamente e quando il rossore del tardo pomeriggio inizia a tingere il cielo abbandoniamo Nugget Point per l’ultima tappa del nostro viaggio. A poche centinaia di metri dalla scogliera, infatti, si apre una piccola spiaggia ghiaiosa dove dicono sia possibile vedere i pinguini da ottima posizione. Desideroso di scattare un bel primo piano, cammino rapidamente sul sentiero accidentato e mi fiondo verso la baia, che prende il nome di Roaring Bay. Al termine, un rifugio dalle pareti incolore funge da appostamento per il birdwatching. Sotto la bassa tettoia, si aprono tre finestrelle da cui è possibile osservare l’intera baia senza essere visti. Il nascondiglio, infatti, è essenziale se non ci si vuole precludere l’incontro con una specie, come quella dei pinguini, che non tollera la vicinanza dell’uomo. Appena entrati, notiamo che il posto è preso d’assalto da un gruppo di turisti che, come noi, attende solo l’arrivo dei tozzi pennuti dagli occhi gialli.
Fiero del mio successo, guardo e riguardo la foto dei pinguini sullo scoglio di Nugget Point. All’improvviso, un tale, un americano sulla cinquantina, si avvicina e mi dice: «Oh, che bel gruppo di cormorani!».
Lo guardo un po’ stranito. Mi vuole provocare?
«No, guardi, quelli sono pinguini».
«No, si fidi, sono cormorani» ribatte lui, imperterrito.
«Sono pinguini».
«Cormorani, guardi il piumaggio».
«Pinguini».
«Al diavolo…come vuole!».
Non ammetto replica. Quell’uomo porta occhiali più spessi di quelli dell’Uomo Talpa dei Simpson. Che ne vuole sapere? Per me quelli sono pinguini. Punto.
Impegnato come sono nella discussione, quasi non m’accorgo che la luce del tramonto è ormai scomparsa. Decido così di montare la fotocamera sul treppiede per evitare foto mosse o sfocate vista la scarsa luminosità. Esco, per un istante solo, dal rifugio. Mentre sistemo il cavalletto, sento esclamazioni di sorpresa provenire dall’interno. Lascio lì tutta la mia attrezzatura e corro.
«Che è successo?».
«Ne abbiamo appena visto uno uscire dall’acqua!».
«E dov’è adesso? Fatemi vedere!».
«Ora non si vede più. È corso subito nella foresta!».
Imprecando, maledico me stesso per essere uscito proprio in quel momento. Dovrò rinunciare al primo piano da National Geographic. Già m’ero figurato gli onori, i premi, le lodi. Ora invece dovrò accontentarmi di un’immagine mossa. Con le pive nel sacco, mi allontano da Roaring Bay, infuriato e con una mezza delusione. Mezza sì, perché il sapientone occhialuto può dire ciò che vuole, ma, nella mia testa, quelle confuse sagome bianconere rimarranno sempre pinguini. E questo basta per sentirmi realizzato e farmi dire: «Ora, posso anche tornare a casa».