Hic et Nunc

La tentazione di Redwoods

Nel corso del mio viaggio ci fu più di un momento in cui il pensiero di non tornare a casa mi sfiorò. In un modo o nell’altro, c’era qualcosa che mi teneva lontano dall’Italia e mi portava a credere che, in fin dei conti, non sarebbe stato affatto male rimanere lì per un po’.
Capita, infatti, che, sedotti dalla novità, ci lasciamo trasportare dalle circostanze e finiamo con il farci lusingare un po’ troppo dall’entusiasmo per un’esperienza di grande impatto. Ebbene, debole di spirito com’ero, non potevo rimanere estraneo a tali lusinghe. Simili pensieri s’erano fatti vivi in molteplici occasioni, sebbene non fossero mai riusciti a superare il controllo della ragione, la quale, implacabile, sentenziava: «Questa non è davvero casa tua».

Una volta, però, la tentazione fu più forte del solito e, per qualche ora, contemplai davvero l’ipotesi di rinunciare ai miei piani e posticipare il ritorno a data da destinarsi.
Successe tutto in un piovoso pomeriggio di fine maggio. Ero appena uscito dal centro di Rotorua, una cittadina di cinquantamila anime che batte all’unisono con il cuore pulsante della North Island. La città, infatti, sorge nel bel mezzo di una vastissima area vulcanica ricca di crateri, sorgenti termali e calde piscine naturali.
Superate le esalazioni sulfuree del centro e i villaggi maori della periferia, mi trovai a percorrere una lunga strada rettilinea che, in pochi minuti, m’avrebbe portato nella più importante area verde dell’intero distretto.

Dovete sapere infatti che, a cinque chilometri dalla “città dello zolfo”, riposa la Redwoods Forest, una riserva naturale che si estende per i quindici acri di una terra dominata da piante altissime, umide paludi e passerelle di legno. Meravigliosa testimonianza di biodiversità ed equilibrio dell’ecosistema, la foresta appare fin dall’ingresso come un luogo ideale per una passeggiata disimpegnata. L’occasione perfetta per distendere i nervi e concedersi un’ora d’aria.

Fin dal mattino, la pioggia che cadeva a intermittenza aveva infastidito non poco la mia routine, costringendomi a ripararmi ogni qual volta le gocce si facevano più pesanti e fitte. Con mio grande sollievo, trovai proprio nei fusti possenti e nelle fronde corpose della foresta un rifugio più che degno. Senza indugiare troppo, mi misi in cammino lungo quello che aveva tutto l’aspetto di un facile sentiero per turisti: una larga via sterrata si addentrava nel polmone verde di Whakarewarewa, attraversando file interminabili di abeti di Douglas, larici, querce, felci, castagni, cipressi, acacie ed eucalipti. Uno splendido esempio di cosmopolitismo arboreo.

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Redwoods Forest – ph. Manuel Pezzali

La luce del giorno faticava a filtrare in quel reticolato così spesso e io, ben lungi dal sentirmi in trappola, provavo piuttosto un senso di liberazione, non solo dalle intemperie, ma anche dalle preoccupazioni e dalle incombenze. Infatti, proprio mentre passeggiavo, cullato da un silenzio surreale, ebbi modo di riconsiderare il mio approccio a quelle che, fino ad allora, avevo considerato urgenze. In primo luogo, il sempre più vicino arrivo ad Auckland e la successiva partenza per l’Italia.

Prima di quel frangente, non ero mai stato veramente convinto di rimanere in Nuova Zelanda. A prescindere dagli umori del momento e dalle situazioni, qualcosa mi portava sempre a concludere che, tutto sommato, un po’ di voglia della vecchia Italia ne avevo. Avrei potuto rivedere i miei amici, i miei genitori, i miei paesi, le mie strade. E poi ci sarebbe stata lei ad aspettarmi. Anche lei sarebbe tornata dal suo viaggio e sicuramente avrebbe desiderato, come me, di porre fine il prima possibile alla lontananza. Quindi perché esitare? C’erano molti aspetti della mia vita ad attendermi. Come avrei potuto mostrarmi indifferente a un richiamo così forte e scegliere egoisticamente di non tornare?

Messa così, sembrava impossibile. Eppure, in quel preciso momento, forse un po’ suggestionato dai movimenti sinuosi della foresta, dal canto ipnotico dei tui e dei passerotti, dalle limpide trasparenze delle paludi ricoperte di ninfee e giunchi, mi scoprii estremamente vulnerabile. Capii di non avere difese di fronte al pensiero che la mia reale volontà fosse quella di rimanere. Allora, completamente avvolto dallo spettacolo della natura, iniziai a correre con la fantasia e con la memoria. Mi resi conto della vita misera e mediocre che avevo sempre condotto e mi figurai quali soddisfazioni m’avrebbe dato vivere per sempre in Nuova Zelanda. Mi domandai quale fosse il senso del mio esistere e, in un amen, conclusi che non v’era altra risposta che il viaggiare per il mondo. Osservavo una larga e gocciolante foglia di silver fern e, insieme, pensavo al nomadismo che cresceva in me. Erano due settimane che andavo per ostelli e cucinavo pasti essenziali, ma solo allora compresi la bellezza del vivere semplice. Perché tornare, dunque? Perché lasciarmi fiaccare di nuovo dalle comodità del tran tran familiare? Perché ricadere nell’oblio nauseabondo dell’insoddisfazione?

Non mi facevo illusioni. Nemmeno la nota più acuta emessa dal colorito uccellino che scorsi appollaiato su un ramo di pino poteva distogliermi dalla certezza che, oltre agli affetti, avrei ritrovato anche le insicurezze di sempre. Ero tormentato. Più ci rimuginavo, più mi sentivo colpevolmente egoista. Come potevo anche solo ipotizzare di dire a mia madre e a mio padre: «Mi dispiace, ma non torno»? Non avrei mai sopportato l’idea di farli soffrire a tal punto.

Eppure, c’era davvero motivo di consumarsi in quel modo? Non avrei fatto bene per una volta a pensare, solo ed esclusivamente, al mio interesse? Dopotutto avevo passato ventisette anni a mettere gli interessi degli altri prima dei miei. E non ne era mai scaturito nulla di buono. Era forse giunta l’ora di dare spazio a quell’Ego troppe volte soffocato?

Io camminavo e camminavo, tra le passerelle sopraelevate della Tree Walk e i percorsi per le mountain bike, ma più in là procedevo e meno certezze mi sembrava di avere. Avevo come l’impressione che la mia fosse un’escursione verso il vuoto. A ogni passo la mente si riempiva di domande e di presunte risposte che, ahimè, svanivano in un batter di ciglia. E tutto si faceva spaventosamente buio.

In quell’opprimente silenzio dell’intelletto, mi resi conto di essere intrappolato in un labirinto. La via per l’uscita era chiara, ma non altrettanto la mia vista. Tutto mi appariva sfocato e confuso, le strade iniziavano a torcersi e a deformarsi improvvisamente, mostrando mille ramificazioni che prima non c’erano.

Che cosa avrei fatto? Come ne sarei uscito? La foresta aveva intrappolato la mia anima e io non sapevo padroneggiare i miei stessi movimenti. Stavo perdendo ogni speranza e m’ero ormai rassegnato a vagare senza meta fino alla fine dei miei giorni quando, inatteso come un fiore che sboccia tra i ghiacci, il sibilo di una libellula che volava a pochi centimetri dal mio viso mi svegliò dal torpore.

La vidi, elegante e sbarazzina, volteggiare per qualche secondo di fronte a me, per poi partire spedita e inoltrarsi tra i rami appuntiti. Fu allora che la ragione si ridestò. E mise a tacere tutte le voci provenienti da quella parte nomade della mia anima che s’era fatta tanto prepotente: «La tua vita qui è ormai al tramonto. È stata una bella parentesi, ma ora devi andare».

Riavvolsi il nastro come in un vecchio videoregistratore a cassette e uscii dalla selva del dubbio. Non appena misi piede fuori dalla Redwoods Forest, come per incanto ogni interrogativo scomparve. Pare incredibile, ma da quel giorno non avrei avuto alcuna esitazione sui miei progetti e il desiderio di restare in Nuova Zelanda non si sarebbe più manifestato.

Nonostante il repentino cambio di prospettiva, di quell’esperienza m’era comunque rimasto un piccolo segno. La passeggiata nel cuore ombroso del bosco mi aveva insegnato che il mistero della natura può essere davvero pericoloso se avvicinato con animo grave. E che, soprattutto, ogni decisione, qualunque sia il suo peso, genera un conflitto.

Un conflitto che, a prescindere dall’esito, porta sempre a uno scarto, a una perdita. Per quel che posso dire, lo scarto per me sarà il non sapere mai come sarebbe stata una vita intera dall’altra parte del mondo. Ma, forse, essere adulti significa proprio imparare a convivere con questi rimpianti.

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