C’è più di un lato positivo nel camminare da soli. Prima di tutto, si può scegliere la velocità che meglio si adatta alle proprie forze. E non è cosa da poco. Non c’è uno più allenato di te che deve aspettare in cima alla salita, né uno meno preparato di cui giustamente ti devi preoccupare. Non c’è un cronometro da tenere d’occhio, non un limite da abbattere. Nessuna fretta ti viene imposta. Sei solo tu, con le tue gambe e le tue estremità un po’ infreddolite, ma nient’altro.
Certo, bisogna anche saper camminare. Ché quella della marcia è un’arte. Non si tratta semplicemente di porre un piede davanti all’altro. Bisogna avere confidenza con il ritmo, percepire il proprio corpo, avvertirne i segnali, capire quando è ora di fermarsi, bere un goccio d’acqua o mettere qualcosa sotto i denti. Piccoli gesti essenziali che possono sembrare minuzie; bisogni primari che spesso passano in sordina quando si è in compagnia, salvo poi farsi sentire nel momento meno opportuno.
Oltre al controllo sul proprio corpo, la passeggiata in solitaria è anche un modo straordinariamente efficace di riordinare i pensieri. La mente si svuota, si libera dei vincoli delle preoccupazioni quotidiane e si lascia andare. Non a caso le migliori idee nascono proprio quando, passo dopo passo, corpo e mente s’immergono nella solitudine del cammino. E, da grande amante della scrittura e della profonda concentrazione che questa richiede, non posso che aderire a tale maniera di trarre ispirazione da una fuga individuale nel mondo esterno.
Inoltre, trovo che la ricerca di una bellezza naturale sia di per sé una condizione fondamentale affinché tale immersione dia i suoi frutti. Chi la cerca in luoghi lontani, chi ama ripercorrere sempre le stesse vie, tutti sono in cerca di questa bellezza, il cui pregio non s’esaurisce nel farsi ammirare come cosa tangibile, ma nello stimolare appunto i migliori pensieri, nell’esserne fonte.
È proprio con questa predisposizione che sono solito mettermi in cammino. Non importa se la meta è nuova o già conosciuta. L’unica cosa che conta davvero è ciò che apprenderò durante il tragitto.

Sapete, a volte l’abitudine gioca con noi. Ci mette a confronto con gli stessi oggetti, le stesse situazioni, gli stessi paesaggi e la nostra sensibilità finisce per atrofizzarsi in questa monotonia. Allora non accarezziamo più il tronco della quercia, non ascoltiamo più lo stormire delle foglie di castagno, non tastiamo più l’acqua tiepida del laghetto di montagna. Le mulattiere e i sentieri perdono di colore e tutto ci appare ugualmente triste e vecchio. Saremmo pronti persino a scommettere che, passati vent’anni, quei posti sempre uguali a loro stessi non saranno cambiati di una virgola. Peccato che non funzioni così.
Quando smettiamo di percorrere una strada e la ritroviamo dopo anni di colposa indifferenza, questa ci appare del tutto diversa, rivestita di un’apparenza che non ricordavamo. Calcando il terreno di una via dimenticata, ci sorprendiamo a scoprire nuove sensazioni e, con esse, nuovi significati. E, di conseguenza, ci vengono in mente idee altrettanto nuove.
Accade così che, nel momento in cui metto piede sul sentiero che porta al rifugio Malga Lunga, io sia proprio in quella situazione e mi ritrovi catapultato in un’esperienza che non immaginavo. Un’esperienza che non avevo da almeno quindici anni.
La prima parte dell’itinerario è un’agevole ascesa che mi porta dai quasi 1000 metri della Forcella di Ranzanico ai piedi del Monte Pizzo, nella Val Gandino. La via inizialmente corre sinuosa nel bosco, salvo poi sbucare su una strada cementata che s’inerpica leggermente tra prati verdi, piccole ville e roccoli. Avendo cambiato versante non vedo più i dolci pendii ombrosi della mia valle – la Val Cavallina – ma lo sguardo si posa sui vasti spazi della Val Seriana, sui fianchi imponenti delle Orobie e sulla cima innevata della Presolana. Per quanto lontani essi appaiano, sento in cuor mio la vicinanza di quei luoghi, segno di una benevola disposizione d’animo. Uscito dal bosco, incrocio lo sguardo di una volpe che, non appena avverte la mia presenza, tira su la testa e la folta coda e, in un baleno, si fionda giù dalla scarpata, con l’eleganza che solo certi animali selvatici possiedono.
La salita, tanto facile quanto panoramica, termina all’imbocco della strada tagliafuoco che collega i territori di Ranzanico e di Endine Gaiano. Mi aspetta una lunga spianata che attraversa una bella area boschiva, particolarmente frequentata da cacciatori e taglialegna. Sui rami nudi e secchi, a fianco della strada, un insistito scricchiolio cattura la mia attenzione. Qualcosa si nasconde tra gli alberi e si muove seguendo i miei passi. Un uccellino? Una lucertola? Un’altra volpe? Per fortuna, il rumore è troppo lieve perché si tratti di un cinghiale. Cos’altro può essere? Che io sappia, la fauna del posto non è poi così ricca.
Rallento un poco e aguzzo la vista, fino a scorgere, nella confusione di rametti e foglie secche, la coda pelosa e le orecchie appuntite di uno scoiattolo grigio. Cerco di attirarlo, sapendo che, a differenza di altre specie, non è un animale particolarmente schivo, ma, nonostante i fischi e i richiami insistiti, quello ha deciso che continuerà ad accompagnarmi da una certa distanza. Così è per almeno cinque minuti, quando, stanco di saltare da un ramo all’altro, scende e corre via nel bosco.
Il piacevole incontro mi fa perdere la cognizione del tempo e dello spazio e quasi non mi accorgo del magnifico panorama che si apre alla mia destra. Due laghi, di dimensioni e aspetto differenti. Due laghi che, per chi scrive, non sono solo semplici luoghi, ma sono testimoni di un’esistenza in divenire. Il primo, piccolo e ghiacciato, è il caro Lago di Endine, di recente preso d’assalto e usato come pista per il pattinaggio sia dai locali sia dai visitatori. Il secondo, più grande e sinuoso, è il Lago d’Iseo, la perla d’acqua dolce che ai forestieri è nota soprattutto per l’opera The Floating Piers – la passerella galleggiante realizzata nel 2016 dall’artista Christo. A noi, che a certe atmosfere siamo affezionati, il Sebino appare sotto tutta un’altra luce. E, complice la mattinata tersa, questa luce risalta ancor di più, mostrando i riflessi sull’acqua limpida, i fianchi e le vette frastagliate del Trentapassi, la cima più alta e morbida del Guglielmo, le casette e le vie dei borghi.
Vorrei perdermi ancora un po’ nella contemplazione, ma di fronte a me un bivio, letterale più che metaforico, impone che io prenda una decisione. Due vie sia aprono. Entrambe portano al rifugio Malga Lunga. La prima, però, sembra salire decisa fin da subito e questo basta a farmi scegliere la seconda, che appare più larga e pianeggiante.
Ahimè, il kharma è una bestia che non lascia scampo. Prendere la via apparentemente più semplice non è stata una scelta saggia. Devo pagare il prezzo per la mia codardia: dopo una breve discesa che mi riporta quasi alla quota di partenza – nei pressi della località Botta Bassa -, il sentiero si restringe e si impenna prendendo un canaletto scavato nel prato. Fin da subito, la pendenza sfiora il 30% e dopo pochi minuti mi ritrovo a corto di ossigeno. Guardo il cartello di fronte a me: la destinazione è ancora a un’ora di strada. Lo stesso tempo che era segnato al bivio. Mi sento preso in giro e inizio a salire con fare ostinato e frustrato, mettendo le mani sulle ginocchia e cercando di ignorare la fatica. Come se non bastasse, il canaletto è ora pieno di fogliame rinsecchito su cui i miei scarponi da neve non hanno alcuna presa. Perciò, scivolando ogni cinque passi, mi ritrovo più volte a mettere le mani a terra per non cadere di faccia. Per mia fortuna, il calvario dura poco e nel giro di quindici minuti il tratto più duro è superato. Altri venti minuti di cammino, lungo un agile tratto che s’infila nei boschi della Val Borlezza, e arrivo a destinazione.

Della storia della Malga Lunga si è detto e scritto molto. Una storia che, come tutte le cronache di guerra, unisce coraggio e dolore, onore e lutto. Per quanto sia interessante approfondire le vicende della 53^ Brigata Garibaldi non credo sia questo il luogo più adatto per parlarne, né lo è la mano di chi scrive. Ai fini del racconto, basti sapere che, da tempo, il rifugio della Malga Lunga è anche un museo, dove gli insegnamenti e le testimonianze della Resistenza sono ben in mostra.
Ma, se all’interno padrona è la storia, fuori è tutto un altro discorso. Qui non c’è guida migliore che la rosa dei venti installata nei pressi della miglior veduta del posto. Con una sola occhiata, si può ammirare un’intera cordigliera di cime, passi e creste.
Eccole, maestose e imperturbabili, le mie montagne: le osservo, le ammiro e le venero come uniche divinità del mio Pantheon. Alcune, come il Guglielmo e il Trentapassi, le vedo ogni giorno; altre, come Montecampione e il Muffetto, le ho già conquistate, altre ancora, come l’Adamello e il Blumone, le ho solo sognate e, per ora, rimangono oggetto di desideri e ambizioni sempre vivi.
Ovunque mi giri, la montagna, da lontano, mi parla. Una mi racconta di una gara seguita tempo fa, un’altra rievoca una passeggiata sulle ciaspole con mio padre e mia madre, un’altra ancora mi attira a sé chiedendomi se sono disposto ad incontrarla.
Io non so se sono pronto a fingermi uno scalatore. Non so se riuscirò mai a superare la paura delle altezze. Non so nemmeno se avrò modo di realizzare i miei buoni propositi, quelli che abbondano sempre a inizio anno, ma poi vengono abbandonati uno dopo l’altro. Solo il tempo mi dirà se per una volta avrò saputo prendere la strada giusta al bivio.
Intanto, mentre il sole di metà mattina si leva a riscaldare l’intero paesaggio là sotto, io, riposato e soddisfatto, mi lascio abbracciare da un senso di appagamento che è solo mio e che non devo dividere con nessuno. Un altro privilegio di cui solo il camminatore solitario può godere.