Per quanto ci tenga a negarlo, anche io sono stato un bambino. È successo tempo fa e, purtroppo, non era qualcosa che dipendesse da me. Mi sarebbe piaciuto poter vantare un’origine particolare, che so, per mitosi, ma, ahimè, noi umani siamo esseri fallaci e ancora non riusciamo a liberarci di questa maledetta biologia.
L’unica cosa davvero utile dell’esser stati bambini sono i ricordi. O meglio sono quelle immagini e quelle esperienze che, vissute in tenera età, appaiono così vivide e forti che, anche a decenni di distanza, le sappiamo raccontare con grande facilità e dovizia di particolari.
Ricordo che, da piccolo, avevo un orsetto di peluche. Me lo regalò mio padre dopo una gita di famiglia a Pisa. E benché egli fosse più incline ad elargire la propria generosità in altri modi, quel dono materiale, ai miei occhi, ebbe sicuramente più peso di gesti o dimostrazioni meno eclatanti.
Contrariamente a quanto si sarebbe portati a credere, quello non era un orsetto come tanti altri. Non era morbido e paffuto. Il suo aspetto non era grazioso e rassicurante nel modo più ortodosso. Non c’era niente che lo accomunasse alle serie infinite di pupazzi senz’anima che, da una fabbrica di Taiwan, finiscono nella cameretta di un bambino medio-borghese.
No, lui era fatto diversamente. Quel bizzarro peluche indossava una divisa militare con tanto di stellette e onorificenze. E, cosa ancor più particolare, sulla testa portava il basco rosso dei paracadutisti. Era un orsetto parà.
I paracadutisti erano stati il corpo militare di mio padre durante l’anno di leva obbligatoria. Se penso che i racconti di quel periodo della sua vita occupano, ancora oggi, buona parte delle nostre conversazioni, comprendo immediatamente il motivo per cui mi fece un simile regalo. La vista di quell’orso tutto impettito e fiero della divisa gli consentì di riesumare momenti felici del suo periodo di addestramento e, in un certo modo, dovette pensare di poter trasmettere quelle emozioni sopite a me.
Tornando all’orsetto, questo suo rigore, che emergeva sin da com’era vestito, mi fece intravedere in lui qualcosa di inconsueto, qualcosa che si distaccava dalle solite rappresentazioni che ci facciamo degli animali – finti o reali che siano. C’era un che di umano in lui.
Forse fu proprio per questo motivo che decisi di chiamarlo Michele. Non Yoghi, non Winnie, non Kuma. Tra tutte le possibilità, scelsi Michele, un nome comune, un nome di persona, perché, ai miei occhi di bambino, quel peluche era un essere umano in miniatura. Con qualche pelo in più, diciamo.
Mi affezionai rapidamente a Michele. Come detto, non era morbido né flessibile, ma il suo corpo leggermente incurvato e rigido si adattava perfettamente alle mie braccia, cosicché, ogni volta che lo prendevo, non dovevo fare alcuno sforzo per tenermelo stretto.
Lo portavo sempre con me: era un compagno fisso nei lunghi viaggi in auto con mamma e papà; a cena – che fosse in casa o al ristorante – sedeva sempre nel posto vuoto accanto al mio; ogni mattina finiva dentro lo zainetto, salvo poi uscirne quando capivo che non c’era abbastanza spazio per i libri e per lui. Quando tornavo a casa da scuola, Michele era lì che mi aspettava. Mi piaceva pensare che di mattina, mentre io ero a lezione, scendesse dalla sua mensola, si infilasse nel mio letto e se ne stesse lì, bello comodo, a riposare.
La sua presenza mi rassicurava, mi dava un rifugio dalle paure del mondo esterno. E io di paure ne avevo tante. Del buio, dell’altezza, del mostro sotto al letto e così via.
Ricordo, con una certa nostalgia, che, una volta a casa, gli raccontavo la giornata di scuola appena trascorsa. Lui m’ascoltava e, con quel sorriso appena accennato, sembrava volermi rincuorare o farmi un complimento.
Michele, al posto degli occhi, aveva due bottoncini di madreperla color nocciola. S’intonavano perfettamente con la divisa militare. A pensarci bene, non c’era un solo dettaglio che fosse fuori posto. Era così ordinato, così perfettamente in equilibrio che la sua vicinanza m’infondeva, in modo quasi automatico, una pace straordinaria.
Poi accadde il fattaccio. Erano anni che me lo portavo dietro ovunque andassi e tendevo a non farci caso, se sbadatamente mi sfuggiva di mano o lo strusciavo leggermente per terra. Era quel livello di incuria che, bene o male, ti aspetteresti da un bambino.
Ebbene, un giorno, mentre mi apprestavo a salire in auto, feci scivolare Michele dalle braccia. Il peluche cadde lentamente, ma con il muso rivolto verso terra. Poco male, pensai. Solo un po’ di terriccio e di polvere.
Quando lo ripresi in mano, però, mi accorsi che uno dei due bottoncini, evidentemente allentato dall’usura, s’era staccato, lasciando il povero Michele senza un occhio. Cercai disperatamente il bottone, ma nelle vicinanze non c’era. Chiesi ai miei genitori, ma nemmeno loro riuscirono a trovarlo. Era svanito nel nulla.
Mi sentii male. Michele, ai miei occhi, era sempre stato un’immagine di rigore e compostezza, un simbolo di sicurezza e fiducia in se stessi. In quel momento, invece, era solo un pupazzetto menomato. Come avrebbe potuto darmi la stessa tranquillità di prima? Che cosa avrei pensato guardando quella cucitura vuota? Quel danno così evidente avrebbe cambiato il nostro rapporto?
Al momento non lo sapevo. Di una sola cosa ero certo: non mi sarei mai privato di lui. Anche mezzo cieco era pur sempre il mio orsetto paracadutista e niente al mondo avrebbe potuto portarmelo via.
Di lì a poco, capii che tenerlo fu la scelta giusta. Pur non avendo la stessa espressione di prima, il suo viso continuava a trasmettermi emozioni. E, in particolare, mi dava una sorta di malinconica consapevolezza. Come se, da quell’incidente, avesse imparato qualcosa. In un certo senso, era come un reduce di guerra, sopravvissuto a un dramma indicibile.
Era come se mi volesse dire: «Nonostante la sofferenza che mi hai dato, io sono ancora qui tra le tue braccia. Sono qui a darti il conforto che ti serve per affrontare, ogni giorno, quello che c’è là fuori e che ti fa tanta paura».
In quel momento, non potevo saperlo ancora, ma lo sfortunato incidente si sarebbe trasformato in una grande lezione. Crescendo, simili lezioni ti appaiono più chiare e, in vie del tutto impensabili, ti indirizzano verso valori e gesti che, come il povero Michele, sono inequivocabili indizi di umanità.
Io non so dove sia Michele oggi. Forse nella cameretta spoglia di un bambino in Guatemala, forse ammucchiato con altri pezzi di antiquariato in un negozietto, o forse sta lentamente morendo in una discarica. Per quanto l’aspetto materiale possa logorarsi e lentamente scomparire, quel che rimarrà di lui sarà l’eccezionale attaccamento che avevo nei suoi confronti. E di certo non era solo l’egoistico desiderio di possesso, ma si trattava di una sintonia che agiva più in profondità, che toccava le corde della mia anima in evoluzione.