Padre Ignazio era il bibliotecario del monastero di Avio. Lo era diventato dieci anni prima, quando il suo predecessore, padre Tobia, era passato a miglior vita dopo una lunga malattia al cuore.
Non che gli piacesse più di tanto prender polvere tra scaffali e vecchi tomi, ma era sempre meglio che sporcarsi le mani zappando la terra o perdere qualche falange al laboratorio di padre Fernando. Era un lavoro noioso, ma sicuro.
E poi, fatto ancor più sorprendente per un uomo non troppo colto, star vicino alle pagine ingiallite dei libri gli consentiva di perdersi nelle trame di storie e leggende antiche.
Una mattina, infatti, dopo aver consumato una colazione frugale e recitato le consuete preghiere, s’era avventurato, con un certo piglio, tra le collezioni di letteratura medievale e, spulciando e scartando, estraendo e riponendo, aveva trovato un voluminoso glossario di miti e racconti d’estrazione popolare. Leggendo il titolo, ben intarsiato nella copertina rigida, padre Ignazio trovò un che di misterioso e interessante. La copertina recitava, con calligrafia solenne e raffinata, le parole: Storie d’uomini infami e de’ loro malefatte contra il popolo dall’anno 1066 all’anno 1215.
E, andando con lo sguardo un po’ più in basso, il monaco s’avvide del nome di chi doveva aver tradotto quelle storie dal latino al volgare fiorentino: Volgarizzamenti di Manlio Senese fatti e redatti nell’anno 1592.
Manlio Senese, chi era costui? Tal nome gli suonava nuovo, ma, di certo, poco istruito com’era, padre Ignazio non avrebbe potuto conoscerlo in alcun modo, quand’anche non si fosse trattato di uno pseudonimo.
Aprì il volume nel mezzo e fu sufficientemente fortunato e abile da trovare esattamente la prima pagina di un racconto popolare. Il numero indicava il capitolo trentaquattresimo. L’autore, lesse il monaco, era un anonimo cantore che si presume fosse vissuto alla corte dell’imperatore Federico I Barbarossa, tra 1161 e 1187. Per quanto precise fossero le date, di questo bardo o giullare non si sapeva assolutamente nulla, se non, per l’appunto, la storia lasciata in eredità, che titolava Il furbo, l’idiota e il fantoccio.
Per non tardar oltre e approfittare della pazienza del lettore, riportiamo ora la storia completa, con un linguaggio più semplice e comprensibile dell’originale, giacché padre Ignazio ebbe la premura di adattare l’antico volgarizzamento cinquecentesco alla parola umile e morigerata dei religiosi suoi contemporanei. Gesto ancor più meritevole se si pensa che mai, prima di quel giorno, s’era affaccendato con tanta dedizione e zelo.
«Nel glorioso ducato di ***, tra le valli di Ponente e i grandi laghi che s’aprivano a est, sorgeva una cittadina popolosa e irrequieta.
Gli abitanti di questa cittadina erano gente semplice e dedita al lavoro: manovali, stallieri, armaioli, fabbri, costruttori, artigiani e macellai. Con grande industria e spirito d’iniziativa avevano creato una piccola, ma soddisfacente fortuna. Questa gente, però, non amava che qualcuno andasse a mettere il becco nei loro affari, elemosinando accoglienza o, peggio ancora, rubando il mestier loro. Si sentivano minacciati da ogni luogo e, giorno per giorno, girava voce che gruppi di forestieri si muovessero dalle terre vicine per cercar guai proprio nella loro bella città. Questo fastidio, che, col tempo, s’era mutato in paura e, poi, in odio, era stato ben compreso da un uomo di grandi ambizioni.
Costui era un abile mestierante dell’arte politica. Non particolarmente erudito, s’era guadagnato una certa considerazione tra i propri amici facendo circolare proprio quelle voci sui forestieri e mettendoci del suo per alimentare il fuoco della rabbia. Man mano che la sua abilità di agitatore e manipolatore aumentava, una massa sempre più grande prendeva a seguirlo, finché un giorno, quando seppe di avere tutta la cittadinanza dalla sua parte, quell’uomo s’era candidato a governatore della città.
Poco più a sud della cittadina operosa, ma sempre nello stesso ducato, sorgevano tanti piccoli villaggi poco distanti dal mare. Spesso in lite l’uno con l’altro, questi piccoli centri erano perlopiù popolati da pescatori, agricoltori e commercianti. Le cose, però, non andavano molto bene e molti degli abitanti vivevano in stato di povertà e indigenza. Senza lavoro e con tre o quattro figli a carico, spesso gli uomini si lasciavano abbindolare dalle promesse di facili guadagni e si univano ai gruppi di banditi che, tra furtarelli e ingiustizie, facevano incetta di monete tra le campagne.
Tra la gente povera di uno di questi paesini, era cresciuto un ragazzo dal vivo colorito olivastro e dall’espressione ingenua. Egli, per sfuggire alla fame, aveva svolto i lavori più disparati: il lunedì andava a pulire le scarpe dei pochi ricchi del paese, il martedì e il mercoledì lucidava gli attrezzi del fabbro, il giovedì portava viveri e vestiti a casa del prete e il venerdì si esibiva in piazza con stornelli e battutacce, beccandosi spesso intere casse di pomodori sulla faccia. Era un ragazzo illetterato e non sapeva parlare, ma aveva il cuore nobile e gentile. Perciò, strada facendo, s’era guadagnato una certa stima, quantomeno tra i suoi pari e la gente per cui lavorava. Nobili e banditi, spesso a braccetto, lo chiamavano l’idiota del paese, ma egli non se ne curava e continuava ad elargire i suoi servizi.
Un giorno, l’idiota venne convocato a casa del prete.
“Devi andare a ***” disse il vecchio e stimato uomo di chiesa.
“Devi consegnare una missiva al nuovo governatore. Ma stai attento a non aprirla, è strettamente privata…e prendi uno dei cavalli dalla stalla!”.
Il ragazzo, eccitato dall’importanza del compito assegnatogli, acconsentì immediatamente e, raccolte le sue due cianfrusaglie, partì alla volta della cittadina in sella a un giovane destriero dalla folta criniera bruna.
Intanto, nella cittadina di ***, l’abile seminatore era diventato, a furor di popolo, il nuovo governatore e aveva iniziato il suo mandato emanando alcune leggi per rafforzare le difese della città e prevenire attacchi o invasioni dall’esterno. Aveva, inoltre, imposto un numero sconsiderato di dazi per i forestieri che intendevano commerciare e trafficare con la cittadina. Ben si guardò, però, dal chiudere le porte ai potenti e agli uomini di chiesa che venivano dalle regioni vicine. Sapeva, infatti, che il suo era un popolo di grande fede.
Perciò, quando vide bussare alla sua porta un giovane uomo con in mano una lettera recante il timbro curiale, si impegnò ad accoglierlo con tutti gli onori e lo fece accomodare nel suo ufficio.
“Venite pure, buon uomo. Che cosa portate con voi? Orsù, ditemi!” disse il governatore, che non era un uomo dai grandi cerimoniali, ma amava le decisioni rapide e pragmatiche.
“Vostra Signoria, porto con me una lettera del signor parroco di ***” rispose il giovane con fare scanzonato e per nulla intimorito.
“Bene bene. E che cosa aspettate a darmela?”.
Il giovane tese la mano in avanti, ma, quando vide la destra del suo interlocutore avvicinarsi, la ritrasse istantaneamente e disse: “Prima vi chiedo una cortesia”.
Visibilmente spazientito, il governatore sbuffò e disse: “Orsù parlate, ma fate che sia una cosa da subito!”.
L’idiota prese respiro, come a voler trovare il coraggio dentro di sé, e disse: “Vi prego di tenermi a faticare con voi! Lo so che voi non amate i forestieri, ma io sono un buon lavoratore e vi prometto che porterò grandi benefici alla vostra persona e al vostro popolo”.
Sorpreso da tanto ardire, il governatore si fermò, si mise una mano in capo, ci pensò su, poi rispose: “Ditemi, che sapete fare voi di tanto utile?”.
“So fare un po’ di tutto, come si chiede a un garzone o all’apprendista d’un bottegaio. So lavare scarpe, pulire le stanze, lucidare gli attrezzi, so recitare stornelli e freddure, so persuadere la gente umile con racconti e frottole!”.
A quest’ultima sentenza, il viso del governatore s’illuminò.
“Conoscete voi le lettere e le scienze?”.
“Ahimè no, mai ho avuto un precettore che me le insegnasse”.
L’abile stratega non parve troppo preoccupato e, qualche secondo dopo, disse: “Forse ho trovato un impiego degno di voi. Dopotutto, penso che mi potrete essere di comodo”.
Il giovane, tutto entusiasta, prese a stringere la mano destra dell’uomo che aveva di fronte, senza nemmeno sapere quale lavoro gli avesse appena offerto. Un dubbio che venne subito dissipato: “Sarete il mio segretario, buon uomo. Mi seguirete ovunque io vada, ma senza dar evidenza del vostro ruolo. Dovrete sembrare indipendente, cercare il consenso della vostra gente, portarla dalla mia…dalla nostra parte, e far sì che ci aiuti a crescere. Pensate di poterlo fare?”.
“E come no!” urlò il giovane.
“Bene, allora è fatta. Farò avere una risposta al vostro parroco e, insieme, gli dirò di avervi preso sotto la mia custodia”.
I due iniziarono così a lavorare insieme e, per sei mesi, si destreggiarono nel governo della cittadina, chiudendo le porte ai forestieri e rivolgendo parole al miele alla povera gente. Di tanto in tanto, il giovane segretario usciva dalle mura della città e andava a predicare la benevolenza del governatore nelle terre del ducato. Molti contadini e artigiani presero a inviare doni alla cittadina e i villaggi delle campagne si bearono delle promesse del giovane, dimenticandosi della povertà e delle razzie.
La lettera, intanto, era giunta a destinazione. Il prete fu orgoglioso nel vedere che quel suo protetto aveva fatto carriera, ma la maggior parte dell’attenzione la rivolse a ben altro contenuto. Il governatore aveva grandi progetti in mente e la buona riuscita di questi passava dalle sue mani intonse. La frase conclusiva della lettera recitava: “Voi provvedete a mandarmi quell’uomo colto e di nobile aspetto, cosicché io ne possa fare duca e conte”.
Il prete era l’unico a saperlo: quell’uomo politico, che tra i nobili decadenti del posto era conosciuto come il furbo, s’era messo in testa di prendersi tutto il ducato e l’avrebbe fatto sfruttando le paure e la fede della povera gente. Ma egli non era abbastanza nobile per ambire a una tale carica, né, d’altra parte, poteva esserlo quel giovane segretario, che non sapeva mettere in fila due intere frasi. Serviva un uomo di ben altra statura: istruito, moderato, affidabile. Un uomo che egli potesse usare a proprio piacimento. Un fantoccio, insomma.
Ma di tutta questa sordida e furbesca trama che ne poteva sapere il duca? Egli era un uomo anziano e mezzo sordo, che da tempo immemore non usciva dal suo castello e nulla sapeva dei suoi domini e del suo popolo. Le singole città e le singole chiese facevano il bello e il cattivo tempo senza chiedere alcunché al potere centrale. Solo la foresta e i campi oltre il castello erano oggetto d’interesse del duca e non v’erano molte persone che potessero dirsi vicine a lui. Quei pochi che vi restavano fedeli, infatti, erano visti come sozzi leccapiedi e perbenisti fuori dal mondo.
Ne consegue che, quando tre baldi uomini, accompagnati da contadini con i forconi in mano e da fabbri con spade e pugnali appena battuti, bussarono alle porte del suo castello, il duca non sapesse assolutamente nulla del tumulto che si sarebbe scatenato in breve tempo.
“Che fanno costoro dinanzi alle mie stanze?” proruppe il vecchio dal suo sonno.
Servitori e guardie, chiusi com’erano nel castello, ne sapevano quanto il padrone e furono colti da sorpresa quando i portoni vennero sfondati e i corridoi riempiti da gentaglia con fiaccole e armi di bassa lega.
I pochi uomini di guardia furono spediti a pedate fuori dal castello. I contadini e i fabbri rimasero all’esterno assicurandosi che non vi fossero interruzioni, mentre i tre uomini si avvicinavano al duca.
Costui, solo e spaventato, si ritrasse finché poté, ma, quando i tre uomini giunsero a pochi metri dal suo scranno, non ebbe altra soluzione che affrontarli.
“Ditemi che volete, voi che osate fare irruzione con la violenza e l’arroganza in questo castello”.
Il primo a parlare fu l’uomo di nobile aspetto.
“Ci vogliate scusare se abbiamo arrecato danno e spavento alla vostra persona. Era nostra sola intenzione quella di assicurarci un confronto con voi senza impedimento alcuno”.
Il tono di voce dell’uomo-fantoccio era calmo, affabile e persuasivo, tanto che il duca ne fu subito addolcito e ogni traccia di spavento scomparve dal suo volto.
“Noi siamo venuto per aiutarvi – proseguì – da tempo ormai avete perso interesse nel vostro popolo e, di conseguenza, il popolo ha perso interesse nella vostra persona. E noi lo capiamo. Siete un uomo anziano. Dovreste dedicarvi alla letteratura, alla filosofia, alla storia, e non all’arte del governo. Quella è materia per uomini in forze, che sanno come prendere il popolo.”
Il duca non sapeva che pensare, ma alla fine, forse con un po’ di rassegnazione, disse: “E che vi proponete di fare, voi altri?”.
Al che si fece dinnanzi il governatore, che non vedeva l’ora di prender parola e, moderando il suo ardimento, disse: “Vorremmo, modestamente, alleggerire il vostro animo di questo gravoso compito e lasciare che vi dedichiate ai vostri piaceri con maggiore libertà”.
“Vorremmo – e qui riprese il fantoccio – che voi ci concedeste l’onore di guidare il ducato in qualità di reggenti. Voi potrete sempre mantenere il titolo nobiliare, ma saremo noi a portare avanti questo compito per voi. Nella maniera più giusta e nobile possibile.”
Affaticato e un po’ intimorito, il duca non richiese troppo tempo per essere convinto. Non sapeva più nulla del suo paese e del suo popolo e un aiuto da questi uomini non poteva che far bene.
“Sta bene, allora! Ma consentitemi, almeno, di vivere gli anni che mi restano, in pace, nella mia villa di ***”.
Il giovane segretario, che fino a quel momento era rimasto in silenzio, pensò che fosse giusto prendere la parola e disse: “Questo è il minimo che possiamo fare per voi”. E subito dopo, rivolgendosi ai suoi contadini, gridò: “Orsù scortate il signor duca fino alla sua villa di *** e badate che non gli succeda nulla lungo la via!”.
Il vecchio duca canuto s’alzò dal suo scranno, si fece largo tra i tre uomini e, percorrendo mestamente il corridoio, uscì dal castello, non prima d’aver dato un’ultima triste occhiata ai bei quadri sulle pareti e alle colonne intarsiate dell’atrio.
Si voltò verso i tre uomini e li salutò con un cenno della mano e un sorriso forzato sul volto. Un gruppo di dieci campagnoli lo scortò fino ai confini del ducato, dopodiché il vecchio si incamminò, solitario e ingobbito, verso una villetta in legno nel cuore della foresta.
Da quel momento, della sua sorte nessuno seppe più nulla.
Quel che è noto, però, è che, il giorno stesso, il fantoccio dalle maniere cortesi si sedette sullo scranno acquisendo la carica e, malgrado le promesse, il titolo nobiliare del duca. Il giovane segretario, che un tempo era l’idiota del paese, continuò a elargire promesse e a decantare bagattelle, ma da una posizione e un prestigio più alti, che gli davano legittimità e autorevolezza. Ma, più di tutti, chi poteva dirsi vincitore era il governatore di ***, il furbo e abile stratega, che teneva nelle proprie mani i destini e le fortune di un intero ducato.
Il furbo, l’idiota e il fantoccio governarono per molti anni. Il popolo, sempre più rozzo e credulone, ne era ammaliato. I nobili e i letterati erano relegati ai margini della società e nulla potevano se non coltivare un’indignazione privata e sofferta. Gli uomini di chiesa se ne stavano quieti e taciti senza nulla da dire, ma la situazione di comodo giovava alle loro posizioni.
Chi più di tutti soffriva di tal governo erano però i forestieri: mercanti, artigiani, professori, dottori, costruttori, originari di terre vicine, furono costretti ad andarsene e molti di quelli che intendevano recarvisi furono spinti a cercare altri porti. Ben presto, il ducato si chiuse in uno spaventoso isolamento: i tre governanti la chiamarono autonomia e il popolo, ignaro delle tremende conseguenze, scese nelle piazze, sventolando bandiere, agitando il pugno e acclamando i tre salvatori.
Così termina la storia raccontata alla corte del nobile sovrano Federico I Barbarossa. Una storia che serviva a dilettare gli animi, ma anche ad avvertire del pericolo dato da ambiziosi demagoghi e da un popolo che cresce nell’ignoranza».