Hic et Nunc

Parigi. Un amore senza fine

Mancavano ancora più di novecento chilometri e già sentivo il profumo di crêpe diffondersi tra i bistro e i boulevard.

L’alba era da poco spuntata e il freddo mattino autunnale accoglieva le nostre membra intorpidite tra i binari della stazione di Porta Garibaldi. Eravamo in due, quel giorno. Io e Giovanni, per tutti Gianni, o Giàni, che si usi il dialetto o meno. Più semplicemente, mio nonno paterno.

Che cosa ci facevamo io e mio nonno a Milano quel mattino d’ottobre del 2015? Beh, è presto detto. Di lì a qualche minuto saremmo saliti su un treno che in poco meno di sette ore ci avrebbe portato alla Gare de Lyon, a Parigi.

L’occasione era delle più benevole: un ritrovo di famiglia con la mia prozia, che alla periferia della capitale ci viveva da quasi settant’anni. La sua storica Renault ci avrebbe atteso alla fermata di Vincennes, appena oltre l’omonima porta all’estremità orientale della città.

Ma prima di raccontarvi le nostre avventure d’oltralpe, permettetemi di raccontarvi la mia storia personale con Parigi e di spiegarvi quale significato abbia assunto per me nel corso degli anni.

Avete presente quella persona che avete sempre sognato di conquistare e a cui non avete mai avuto il coraggio di dichiararvi? Ecco, immaginate di trovare, un giorno, la forza di esprimere i vostri sentimenti. Se va bene, quella persona vi corrisponde e iniziate una relazione felice e duratura. Se va male, vi beccate un due di picche e tanti saluti ai figli che già vi eravate immaginati. Tuttavia, c’è un momento, brevissimo e molto difficile da cogliere, in cui ogni decisione è sospesa. Un istante di neutralità che segue la dichiarazione e precede la risposta. A volte dura il tempo d’un sospiro, altre volte si mostra come un silenzio imbarazzante.  Ebbene, proprio in quel momento è racchiusa la vera bellezza. Il sollievo provato dall’aver finalmente esternato i propri sentimenti si unisce all’attesa speranzosa per il verdetto. È il momento di massima felicità.

Ecco, per me Parigi è questo. È una meravigliosa epochè. È il giudizio sospeso di fronte al fascino commovente della sensazione. È la stupenda immaturità d’una decisione presa senza pensare; la sofferta indecisione prima di prender parola; l’incertezza nelle gambe tremanti prima d’un tuffo.

Parigi è stata meta ricorrente dei miei viaggi. L’avevo vista, per la prima volta, negli anni Novanta, ma ero troppo piccolo per averne ricordi nitidi. Ci ero tornato, poi, a vent’anni con i miei genitori: una toccata e fuga che mi aveva portato tra le attrazioni di Disneyland, l’obelisco di Place de la Concorde e le sacre reliquie dell’Hard Rock Café.

Risale, invece, a due anni più tardi la mia prima vera visita alla capitale. Era il gennaio del 2013 e mi trovavo in compagnia della mia ragazza d’allora. Era stato un soggiorno piacevole corredato delle tipiche visite che ci si aspetterebbe da una coppia di turisti. L’unica esperienza fuori dagli schemi era stata una cena a base di pizza con olio piccante acquistata in un ristorante turco-cipriota. Un disastro.

Arriviamo così all’autunno del 2015. La mia quarta volta a Parigi. La prima con il TGV. Meraviglia della tecnologia ferroviaria. Peccato solo per il ritardo di oltre un’ora accumulato tra le stazioni di Bourg-en-Bresse e Macon. Tolto l’inconveniente, osservare paesini susseguirsi uno dopo l’altro a velocità folle è stata un’esperienza curiosa, una di quelle che puoi avere solamente guardando il mondo da un finestrino.

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A ogni modo, quando arrivammo alla Gare de Lyon era già pomeriggio inoltrato. Non ci restava che districarci nella metropolitana e raggiungere la zia alla stazione di Vincennes. Un gioco da ragazzi per un assiduo frequentatore della linea M1 di Milano.

Appena arrivati alla fermata, la trovammo lì pronta a riceverci con l’auto ancora accesa. Sul cruscotto campeggiavano l’immancabile bandiera italiana e il gagliardetto degli Alpini. Ci accolse con baci e abbracci e il suo consueto creolo franco-bergamasco. Di italiano ne sapeva ben poco, ma non era certo un problema!

La zia abitava (e abita tuttora) nel piccolo borgo di Gagny, un paesino di periferia dall’atmosfera tranquilla e popolato da una ricca colonia di immigrati italiani.

A Gagny si poteva passeggiare, giocare a carte, chiacchierare amabilmente, ma di certo non era Parigi. Perciò, mentre il nonno faceva compagnia alla zia e si impegnava in un doveroso giro di saluti tra cugini, nipoti e parenti alla lontana, io mi armavo di mappa della metro, carnet da dieci biglietti, macchina fotografica e mi lanciavo alla scoperta solitaria della città.

Era una meravigliosa routine. Per una settimana scarsa, passavo mattina e pomeriggio a zonzo per la capitale in cerca delle sue perle e dei suoi segreti. Rientravo prima del buio giusto in tempo per la cena e la squisita creme brulée cucinata dalla zia. Una sera ne aveva fatte quindici tazzine. Ne avevo mangiate almeno otto. La parte migliore era rompere la crosta con il cucchiaino, proprio come Amelie nel bel film di Jean-Pierre Jeunet.

Non biasimatemi: avevo di che ristorarmi, considerati i chilometri che macinavo durante la giornata.

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Il primo giorno, ad esempio, m’ero promesso di far visita a un caro amico. Non che l’avessi mai conosciuto di persona, ma le sue opere mi facevano sentire talmente vicino a lui da percepire un’amicizia quasi intima. Mi recai a Père-Lachaise, l’enorme cimitero monumentale che ospita le lapidi di personaggi illustri come Oscar Wilde, Jim Morrison, Edith Piaf, Eloisa e Abelardo, Apollinaire, Honoré de Balzac, Amedeo Modigliani e tanti altri. Tra le vie ciottolate e le lunghe scalinate, tra il gracchiare dei corvi e il fruscio del foliage, l’atmosfera era proprio quella di un camposanto. Con la peculiarità della destinazione turistica.

M’avventurai tra steli e monumenti pomposi, tra le iscrizioni dorate di aristocratici del Lontano Oriente e le stelle di David dei defunti di fede ebraica, finché giunsi in un angolo nascosto e vi trovai una lapide piuttosto semplice e modesta. Un lungo e spesso blocco di granito con inscrizioni che recavano gli estremi della vita e il nome di Marcel Proust. Rimasi qualche minuto a fissare la tomba e, nel mentre, scorsi dei piccoli omaggi lasciati dagli ammiratori. Osservai un poco di silenzio in rispetto dell’autore che aveva lasciato una così profonda traccia nella mia sensibilità di lettore e me ne andai, non senza una lieve commozione negli occhi.

Per riprendere contatto con il mondo dei vivi, quel pomeriggio mi recai nel quartiere di Montmartre, l’anima artistica e bohemien della città. Per quanto potesse essere bella la Basilica del Sacro Cuore con la sua lunga scalinata, era oltre la bianca cupola che s’accendeva tutta la vitalità parigina. Una sfilata di pittori, giocolieri, chitarristi e percussionisti, scommettitori truffaldini che cercavano di intortarti con il vecchio trucco delle tre carte. E pensare che qualche fesso ancora ci cascava!

E poi, calpestando i ciottoli delle viuzze storiche, mi ritrovai catapultato in una colorata esibizione di caffè, ristorantini, bistro e negozietti. E, ancora, gallerie d’arte, musei, venditori di ceramica e fiorai. L’intero spettro dei colori era riassunto in un quartiere.

Cercai persino di destreggiarmi nel mio ruvidissimo francese ordinando una scatolina di macaron al limone in una pasticceria. La commessa apprezzò il non volermi affidare all’inglese e mi sorrise.

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I giorni successivi li dedicai ai “soliti noti”, ai luoghi più famosi e pubblicizzati della città, che anche se li hai visti mille volte, vale sempre la pena di tornarci. Passai così in rassegna le fontane limpide del Trocadéro, la ferrea imponenza della Tour Eiffel, la cupola dorata dell’Hotel des Invalides e i cannoni spaventosi del Musée de l’Armée, le strettoie dell’Ile-de-la-Cité con il suo capolavoro, la cattedrale di Notre-Dame. Cercai di zoomare sui cornicioni dove Javert aveva cantato alle stelle e sui gargoyle che disegnavano la bella Esmeralda. Poi mi ritrovai nuovamente a percorrere in lungo e in largo i giardini delle Tuileries e a sostare di fronte alle piramidi di vetro del Louvre, lì dove, due anni prima, avevo provato qualcosa di molto simile alla sindrome di Stendhal.

Persi una mattinata intera a osservare un giovane funambolo che faceva miracoli col pallone di fronte al Centre Georges Pompidou. E, a proposito di calcio, notai con un certo dispiacere che la statua della famosa “testata” di Zidane era stata rimossa.

Per un certo diletto personale, mi misi a cercare la sede centrale della Sorbona e, una volta trovata, provai una certa delusione per un edificio che m’aspettavo molto più trionfante. Quel giorno, però, fui rincuorato da una passeggiata in una viuzza che non conoscevo, rue de la Huchette. Era una stradina stretta e affollata, percorsa ai lati da due alte file di edifici, ornati dalle insegne colorate di ristoranti etnici e fast food: kebap, ristoranti greci, italiani, etiopi, arabi, thai, indiani, cinesi e giapponesi. Mi fermai, però, nel più francese degli esercizi: una crêperie. Dopo tutti quei chilometri, me l’ero meritato. Mangiai la crêpe più buona che avessi mai assaggiato. Ennesima dimostrazione di quanto i francesi siano abili nel farci ingrassare con uova e zucchero.

E, visto che siamo in tema di dolci, come potevo esimermi dal fare una visitina alla celeberrima pasticceria Ladurée, dove un singolo macaron costa cinque euro? Quando il lusso si fa storia, insomma. Stesso discorso per l’Hotel Ritz a Place Vêndome, il prestigioso albergo frequentato da celebrità come Ernest Hemingway, Francis Scott Fitzgerald, Marcel Proust, Charlie Chaplin, Rodolfo Valentino e Coco Chanel, che, peraltro, vi morì.

Parigi è questa estremizzazione del lusso, ma è anche l’ispirazione fatta a città. Per Woody Allen, è la splendida signora che si trasforma a mezzanotte, riportando l’orologio alle eterne scorribande dei ruggenti anni Venti.  Per me è la silenziosa passeggiata sul Lungosenna a osservare la fila interminabile all’ingresso del Musée d’Orsay o i terribili lucchetti sul Pont des Arts. Parigi, per me, era ed è tuttora il momento di pausa su una panchina, mentre i raggi del sole brillano sull’acqua limpida e abbagliano i camerieri affaccendati sui battelli ristorante.

Parigi, per me, è farsi a piedi tutti gli Champs-Elysées e non percepire la distanza né tantomeno avvertire la stanchezza. Un inno all’immortalità dell’arte, della poesia e del genio che è presente in ognuno di noi e che aspetta solo di essere scoperto.

Vorrei dire tante altre cose, ma mi riservo di approfondirle quando ci tornerò questa primavera. Sì, perché, sarò monotono, ma io non mi stanco mai di Parigi. E finché lei non si sarà stancata di me, io continuerò a dichiararmi e a fermarmi nel momento dell’attesa, sospeso e immobile, sperando che non risponda mai.

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