Sapete, nel corso dei tempi sono state date tante definizioni alla scrittura.
Quella strana, curiosa, discussa attività di chi si vuole o si fa definire scrittore.
Molti protagonisti hanno cercato in prima persona di teorizzare il proprio lavoro dando un senso a ciò che stavano facendo. Intellettuali, eruditi, romanzieri e poeti hanno riflettuto su quella missione, sui contenuti, ma anche sulla lingua che d’occasione in occasione veniva utilizzata.
E questo continuo interrogarsi, sebbene non abbia prodotto risposte o verità assolute, è stato un fondamentale esercizio di stile che ci ha portati a un mutamento nella concezione del ruolo dello scrittore nel continuum storico. Una posizione che da un prestigio storicamente notevole è andata, ahimè, svalutandosi, fino ad arrivare ai tempi più recenti, in cui il seggio occupato dallo scrittore nella società è tristemente marginale.
Tradizionalmente, siamo abituati a considerare la scrittura come una forma d’arte o, più generalmente, come un mezzo espressivo, ossia una chance per l’individuo di esprimere sé stesso, i valori che porta, le convinzioni, i sogni e desideri, ma è anche e soprattutto l’opportunità di dar sfoggio delle proprie conoscenze e di trasmetterle a un pubblico vario e interessato alla condivisione. La scrittura, dunque, è anche trasmissione di un sapere, che fa leva su un desiderio innato nell’uomo – motore di gran parte delle nostre azioni – ovvero la brama di conoscere.
L’uomo è un animale conoscente. Aristotele lo chiamava “zoòn politikòn”, animale politico, ma, in fin dei conti, se ci pensiamo, ogni nostra attività, compresa la politica, è basata sulla volontà di conoscere.
Questa forte volontà, definibile in mille modi, nasce a sua volta da una piccola scintilla, che si innesta nel nostro istinto e che è data dalla curiosità. Noi sentiamo tale spinta a conoscer cose nuove, perché siamo curiosi e più questi oggetti di desiderio sono lontani, esotici o segreti, più noi ci scopriamo attratti da essi. Tale curiosità è una forza imperitura, primordiale e preistorica, che muove verso un sapere storicamente fondato: in altri termini la “conoscenza”, così come è stata codificata nei secoli attraverso il mezzo scritto.
La scrittura, s’è detto, è tradizionalmente considerata un mezzo espressivo.
Arrivato a questo punto, però, vorrei adottare un altro punto di vista, forse più originale, giacché limitandola a mezzo si rischia di confinare la portata enorme di questa pratica entro una serie di strumentalizzazioni ben poco stimolanti. Sì, perché la scrittura è attività, è lavoro nel senso nobile del termine, ed è qualcosa che ha a che vedere con l’operatività della coscienza.
Dai tempi di Cartesio, il soggetto cosciente è stato considerato come res cogitans, come sostanza pensante. A seguire, però, molti autori hanno dubitato della fondatezza di quest’idea di soggettività: penso soprattutto alla tradizione dell’empirismo inglese che con Hume e Locke ha messo in crisi la visione sostanzialistica della coscienza umana, proponendo invece un’idea di Io come “operazione”. Non come cosa, ma come un insieme di attività. La coscienza non è più res, ma è azione volta a produrre un risultato, un’azione che si basa su una intenzione.
E qui arriviamo al punto fondamentale. La scrittura è operatività, perché parte da un soggetto che è costitutivamente un insieme di operazioni. La coscienza, come direbbero i padri della fenomenologia, è intenzionale, cioè parte da un’intenzione e si dirige verso un risultato attraverso una serie di operazioni. Questa è la coscienza, ma questa è anche la scrittura, che, dopotutto, è un movimento che va dall’alto (intenzione) verso il basso (risultato). È movimento concettuale – movimento del pensiero che va verso la sua concretizzazione – ma è anche il movimento fisico della mano che si pone sulla carta, che impugna la penna e scrive sul foglio, oppure il movimento delle dita che battono sulla tastiera del computer.
È un moto che va dalla rappresentazione concettuale di un’idea che lo scrittore ha in testa – quest’idea, elaborata dalla fantasia, assume le sembianze di un’immagine ben precisa – all’espressione verbale, alla produzione di parole e alla correlazione di sequenze di frasi, periodi, paragrafi, capitoli, ecc.
È chiaro che questo movimento si ripercuote sul lettore, dal momento che lo scrittore è colui che fa dono di un’opera a un pubblico. Beninteso, la scrittura è anche comunicazione, intesa come scambio e condivisione di un munus.
Se vogliamo recuperare l’originaria duplicità etimologica del termine, da un lato vediamo lo scrittore mettere in atto un passaggio di consegne, regalare un’esperienza, condividere sogni e aspirazioni con un pubblico; dall’altro costui sembra affidare un compito al lettore, ossia ritrovare, nelle parole o tra le righe, un significato che deve essere assolutamente trasparente.
Compito fondamentale di chi scrive, infatti, è restare in tutto e per tutto fedele a sé stesso. Per meglio spiegare questo concetto, permettetemi una doverosa distinzione. Forse non tutti lo sanno, ma c’è una distanza significativa tra sincerità e verosimiglianza: quest’ultima influenza il piano della finzione letteraria (concerne la distinzione tra generi, tra fiction e non fiction) – un racconto è più o meno verosimile in base alla possibilità che gli eventi narrati accadano nella realtà o siano già accaduti. La sincerità, d’altro canto, afferisce al piano della scrittura in sé: una scrittura non è sincera, quando è artificiosa, costruita, quando il suo messaggio è oscuro o ambiguo, quando dice troppo o troppo poco, quando non è adatta al suo destinatario, quando non esprime quello che il mittente intende realmente comunicare[1]. In questo caso non si tratta di finzione, ma di assenza di trasparenza e di sincerità.
Una scrittura sincera è quella di un autore che ha buone idee in testa e buoni sentimenti nel cuore. E, naturalmente, che ha qualcosa da dire.
Da questo punto di vista, trovo di fondamentale importanza che un lettore sappia cogliere la sincerità dello scrittore nelle sue opere. Forse è proprio questa imprescindibile ricerca di trasparenza la più rilevante dinamica antropologica che viene a instaurarsi nel rapporto tra lettore e autore, una dinamica che spesso non viene analizzata con la dovuta puntualità e che ognuno dovrebbe tenere ben presente quando sfoglia le pagine di un libro.
NOTE:
[1] Una scrittura sincera deve seguire fedelmente le celebri “massime conversazionali” di Paul Grice: qualità, quantità, relazione e modo.