Hic et Nunc

Edimburgo, capitale della letteratura

Edimburgo è una città estremamente ricca. Di storia, di tradizione, di monumenti, di costumi e di attività. La si potrebbe disegnare come un grosso calderone d’un argento scintillante, al cui interno si mescolano storie vecchie di secoli, proverbi e detti popolari, miti e leggende.
Difficile trarre da questo enorme contenitore qualcosa che riassuma in poche righe l’essenza della città, non fosse altro perché la varietà dei punti di vista e degli argomenti è talmente ampia da non essere riducibile a un semplice elenco di luoghi o esperienze.
Ne consegue che l’unica soluzione plausibile sia quella di concentrarsi su un aspetto particolare. E, poiché, nella storia delle grandi città, la cultura occupa sempre un posto d’onore, cercherò di spiegare i motivi per cui Edimburgo può essere ritenuta a buon diritto la capitale scozzese della letteratura. Nel farlo cercherò di dare efficacia visiva alle mie descrizioni, cosicché il lettore possa non solo leggere, ma immaginarsi quegli angoli di storia che tanto mi hanno colpito.

Ma procediamo con ordine.
Quando mi inoltro nella scoperta della città, mi resta solo una giornata prima del rientro in Italia. Dopo la prima notte trascorsa in un comodo bed and breakfast a circa un chilometro dal centro, tutto ciò che conoscevo di Edimburgo, fino a quel momento, era una luminosa via lastricata – Rose Street – e una serie di pub e ristoranti che alle nove e mezza della sera già s’apprestavano a chiudere i battenti. Insomma, troppo poco per una città che m’ero sempre immaginato colma di fascino e mistero.

L’antica città di Edimburgo, in origine, si sviluppava su una collina di origine vulcanica che, offrendo lo sguardo sulla costa nord-est della Gran Bretagna, forniva un eccellente posizione dal punto di vista strategico. Questa collina, oggi nota come Castle Rock, nel VII secolo si chiamava Dun Eiden, un antico nome gaelico che significa “forte sul pendio della collina”[1]. Niente di più eloquente per un piccolo agglomerato urbano nato essenzialmente per ragioni di difesa militare. Con la conquista della città da parte del regno inglese di Northumbria (638 d.C), la città cambiò nome, ma solo in parte: il gaelico Eiden divenne Edin, a cui fu aggiunta la parola burh, inglese antico per “forte”.
Si spiega così l’origine di Edinburgh, attuale denominazione della seconda città più grande della Scozia.

La scoperta vera e propria della città inizia camminando lentamente verso la collina di Castle Rock, dove a tutt’oggi si staglia l’immenso castello, sul quale non intendo soffermarmi se non per dire che, visto dall’esterno, esso rappresenta un caso esemplare di fedeltà rispetto al significato del latino castrum, che, nell’Alto Medioevo, identificava un villaggio fortificato, diretto erede dell’accampamento militare d’epoca romana.
Salendo verso le solide mura e osservando da lontano le pareti grigie di case e palazzi antichi, incontro i primi indizi di quello che sarà un leitmotiv dell’intera visita alla città: il tributo alla storia secolare della letteratura scozzese.

Appena prima della meravigliosa cattedrale di St. Giles, magnifica testimonianza di architettura gotica, m’imbatto in una figura possente e fiera che si erge sotto forma di una statua di bronzo alta circa tre metri. Il volto serio e corrugato, il braccio piegato a reggere le pieghe di un lungo mantello: è il monumento dedicato ad Adam Smith, il grande economista scozzese che, grazie alla sua opera più celebre, La ricchezza delle nazioni (1776), è universalmente considerato il padre del liberismo.

Poco distante, però, nel cuore della Old Town, incontro un altro tributo fatto di marmo e bronzo. Sul lato opposto della lunga e ampia High Street, scorgo le fattezze di un uomo, seduto e vestito di una lunga toga di romana memoria, che regge un libro tenendolo appoggiato sul ginocchio. L’inscrizione sul basamento reca a caratteri cubitali il nome di David Hume, filosofo nato e morto a Edimburgo, famoso per essere stato, insieme a John Locke e a George Berkeley, uno dei maggiori esponenti dell’empirismo britannico. Nel suo Trattato sulla natura umana (1739) Hume contestò l’idea cartesiana di Io come “sostanza pensante” (res cogitans), sostenendo che la coscienza non potesse essere intesa in senso sostanzialistico, ma solo come un insieme di operazioni tese a introiettare le sensazioni e gli stimoli provenienti dall’esterno.
Hume, però, non era solo un grande filosofo, ma era anche un letterato in senso pieno. E di questa sua travolgente passione ho un’immediata testimonianza, oltrepassando le porte in vetro della National Library of Scotland, la biblioteca nazionale di Scozia.

L’edificio, imponente, moderno e dall’ampia facciata frontale, ospita sette milioni di volumi, tra cui alcune copie della Bibbia di Gutenberg, una lettera di Charles Darwin allegata al manoscritto de L’origine della specie e la prima pubblicazione delle opere di Shakespeare, nota come First Folio.
Superato l’ampio e spazioso atrio, devo subito tornare con il pensiero alla statua di Hume, giacché le scale che portano al piano superiore recano, tra i gradini, un suo pensiero sulla letteratura: “Literature has been the ruling passion of my life”.
La letteratura è stata la passione dominante della mia vita.

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Confortato dalle parole di Hume e dal clima ospitale che si respira tra quelle pareti intrise di genio e meraviglia, m’immergo ancor di più nella storia della letteratura scozzese: appena oltre l’entrata, infatti, sulla destra una doppia porta in vetro conduce a una sala dove, in quei giorni, è esposta una mostra sull’Illuminismo. E qui, sconvolto da una sensazione molto simile a quella provata in occasione della mia prima visita ai giardini del Louvre, mi perdo nell’ammirazione delle opere dell’umano ingegno.

La mia attenzione indugia su certi antichi manoscritti, protetti da una teca di vetro, e su una pagina dove piccoli caratteri dell’alfabeto greco, lasciandosi leggere, rimandano a versi familiari: “Μῆνιν ἄειδε θεὰ Πηληϊάδεω Ἀχιλῆος…”. Cantami, o Diva, del Pelide Achille l’ira funesta…
È l’inizio inconfondibile dell’Iliade di Omero a campeggiare sulla pagina ingiallita di un volume d’epoca. Chissà quanto dovrà valere, penso in quel momento. Parole gloriose e immortali, che riecheggiano le azioni eroiche di soldati e divinità. L’opera madre di tutta la letteratura europea. Quel volume così prezioso spicca in una teca che contiene anche altri libri di immenso valore, tra cui una raccolta degli Epigrammi di Callimaco, lettere e saggi di David Hume e Adam Smith.

E, quando penso che niente possa superare in prestigio quello che ho appena visto, ecco che, poco dopo essere rientrato sulla via principale – il meraviglioso Royal Mile –, m’imbatto in una minuscola galleria e, appena oltre, in una graziosa piazzetta, dominata da un alto edificio in mattoni. L’insegna che pende da una delle piccole finestre rettangolari recita Writers’ Museum, museo degli scrittori. Bastano quelle due parole a conquistarmi e, con un entusiasmo a tratti ingiustificato, corro verso l’ingresso.

L’edificio, noto come Lady Stair’s House, risale al 1622 e contiene al suo interno importanti testimonianze della vita e del lavoro dei tre maggiori scrittori scozzesi: Walter Scott, Robert Louis Stevenson e Robert Burns. Le stanze a loro dedicate si sviluppano su piani diversi, collegati da una ripida e stretta scala a chiocciola. Non potendo scattare fotografie all’interno del museo, cerco di conservare nella memoria il maggior numero possibile di dettagli, allietato anche dalla bella musica ambient che si diffonde dagli altoparlanti. Protetti da barriere di vetro, ecco comparire oggettini, penne, manoscritti e singole pagine, piccoli esempi della vita quotidiana di alcuni tra i più influenti letterati della storia europea.
Come non ricordare, ad esempio, l’Ivanhoe di sir Walter Scott (1819), il primo romanzo storico d’epoca moderna? O ancora come non perdersi nel fascino dei grandi racconti di Robert Louis Stevenson? Alzi la mano chi non ricorda il terribile pirata Long John Silver de L’isola del tesoro o il povero Dottor Jekyll e il suo mostruoso alter ego Mister Hyde?
Il meno conosciuto dei tre, perlomeno dai lettori italiani, è sicuramente Robert Burns, che occupa, invece, un posto d’onore nella letteratura d’oltremanica, essendo stato il più noto fra i poeti scozzesi a comporre in lingua scots.
Chi dei tre gode del maggior prestigio è sicuramente Walter Scott, considerato l’impatto rivoluzionario che il suo romanzo ebbe non solo nell’ambiente culturale britannico, ma anche nei salotti italiani. Basti pensare che l’Ivanhoe fu una delle maggiori influenze e ispirazioni che portarono alla stesura del nostro “romanzo nazionale”, I promessi sposi di Alessandro Manzoni.

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E di questo oneroso debito nei confronti del genio di Walter Scott ho un ulteriore esempio, mentre, sceso nella New Town, m’incammino lungo l’ampia e centralissima Princes Street. Questa via, ricca di negozi, ristoranti e fast food, corre dritta per centinaia e centinaia di metri, affiancando palazzi storici, monumenti e giardini. Ed è proprio alle porte dei verdissimi Princes Street Gardens che vedo comparire il memoriale dedicato a Walter Scott. Un monumento che s’innalza imperioso, con pinnacoli appuntiti e stretti, in un evidentissimo stile gotico che fa tanto pensare a quell’atmosfera british carica di pioggia, umidità e terrore. Alla base della struttura, il vuoto si apre seguendo la forma di archi a sesto acuto, e lascia che l’occhio si posi sulla bianca statua dello scrittore.

Sir Walter Scott è qui rappresentato con un’espressione corrucciata e pensierosa, seduto con un libro tra le mani e vestito con giacca, calzoni e un lungo mantello. Ai suoi piedi, con le orecchie basse e il pelo lungo, riposa Maida, la sua cagnetta preferita.
La vista del romanziere sembra allontanarsi come a scrutare l’orizzonte, in cerca di un’idea, scavando nei meandri del genio e della fantasia. Alle sue spalle, oltre gli alberi e i prati, salendo sopra la roccia vulcanica, vedo comparire le mura del castello di Edimburgo, come se la città stessa mi suggerisse una sorta di connessione tra passato e passato. D’altra parte è la sua stessa geografia urbana che lascia sì spazio al nuovo, ma che, al tempo stesso, ricorda sempre il debito nei confronti di una storia impossibile da dimenticare.

E con la luce del sole che si fa fioca all’approssimarsi di nubi spesse e minacciose, rivolgo un ultimo saluto alla splendida Edimburgo, non prima di aver soddisfatto la mia sete di lettore, procurandomi un volume di mitologia celtica nel bookshop della cattedrale di St. Giles. Fino alla fine, assaporo ogni istante di profondità e creatività, prima di gettarmi nuovamente nel trambusto, pronto a tornare alla realtà di tutti i giorni.

NOTE:

[1] Inutile dire che il nome Dun Eiden abbia riportato alla mente momenti felici del mio passato. La città neozelandese di Dunedin, posta sulla costa orientale della South Island e fondata da coloni scozzesi, deve infatti il suo nome all’antica denominazione di Edimburgo. Proprio la visita di quella città e della Otago Peninsula ha costituito uno dei punti di maggior interesse del mio viaggio in Nuova Zelanda.

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