Un autore che non fa discutere non lascia dietro di sé alcuna eredità. Potremmo dire, prendendo in prestito il vocabolario giornalistico, che “non fa notizia”. E questo rimane vero nella misura in cui si tende sempre più a giudicare il valore di un’opera in base all’impatto che genera sul pubblico e non alle sue qualità intrinseche. Giusto o sbagliato che sia, questo è il tipo di valutazione e di critica che prevale da almeno mezzo secolo.
Per tale motivo, autori che non hanno saputo elaborare stili o contenuti di memorabile spessore sono passati alla storia semplicemente per aver trascorso un’esistenza burrascosa o per aver espresso pensieri fuori dagli schemi, quando non al limite della censura. Contrariamente, scrittori di grande talento, ma senza vicende tragiche alle loro spalle, sono passati in sordina, destinati all’oblio.
Qualora, però, si abbia a che fare con un autore che unisce un modus cogitandi contraddittorio – ma non per questo incoerente! – e una qualità narrativa fuori dal comune, ecco che il confine della normalità è superato e si entra di diritto nella storia della letteratura.
Nel secolo passato, non pochi furono gli scrittori in grado di tradurre in versi o in una prosa eccellenti i propri drammi personali, esibendo l’estrema complessità di un soggetto oramai in crisi, senza più certezze e conteso tra la volontà di affermarsi in un presente quanto mai precario, il ritorno a un passato glorioso e le preoccupazioni per un futuro imprevedibile. Nietzsche, Proust, Kafka, Silvia Plath, Virginia Woolf e tanti altri seppero cogliere dagli opposti che ne infiammavano gli animi il giusto stimolo per realizzare qualcosa di estremamente prezioso destinato a sopravvivere alle loro stesse fragili vite.
J.R.R. Tolkien può essere a buon diritto inserito nel novero degli artisti che hanno creato pregevoli universi narrativi partendo da una complessità psicologica e da esperienze biografiche dal peso determinante. Se è vero, come scrive Verlyn Flieger nel suo bel saggio Schegge di luce. Logos e linguaggio nel mondo di Tolkien (Marietti, 2007), che egli era un uomo di grandi contraddizioni, allora ben si spiega il motivo per cui l’amore che egli provava per la mitologia norrena pagana (Tolkien non amava usare l’aggettivo nordico, per via della strumentalizzazione operata dai nazionalismi degli anni ’20 e ’30) emerga all’interno di un corpus di opere che, per stessa ammissione dell’autore, evoca un chiaro simbolismo cristiano.
Rimasto orfano in giovane età, Tolkien era un fervente cattolico – mai granitico nelle sue convinzioni, e sempre pronto a mettere in discussione la sua fede – e, per quanto certe letture politicizzate (tanto di destra quanto di sinistra) tendano a vederci qualcosa di diverso, Il Signore degli Anelli resta un’opera fondamentalmente cristiana. C’è forse bisogno di negare l’evidenza per evitare che perda di valore all’interno di una contemporaneità sempre più laica? Certamente no, e lo dico da non credente. Sarebbe un grave errore privare quest’opera e l’intero corpus tolkieniano dell’apporto della fede e della morale cristiane, senza le quali i personaggi di Frodo, di Galadriel, di Gandalf (tra i tanti) non sarebbero affatto come li leggiamo oggi.
Occorre altresì aggiungere che Tolkien detestava l’allegoria e non voleva che la sua opera fosse soggetta a interpretazioni di carattere teologico, politico o ideologico, pertanto evitò di inserire riferimenti espliciti alla religione cristiana, asserendo che i suoi valori fossero presenti nel “simbolismo dell’opera”.
Ci vogliono un’estrema delicatezza e una certa raffinatezza d’ingegno per portare a termine un’opera di questo tipo. Ma il professore poté riuscirvi spostando l’attenzione su quello che più gli stava a cuore: la creazione di un legendarium che attingesse a piene mani alle tradizioni nordiche e alla storia alto-medievale, dall’Edda di Snorri al Kalevala finlandese, dal Mabinogion gallese alla saga dei Volsunghi, dal ciclo arturiano al Beowulf. In questo modo, riuscì a conciliare l’eroismo e il valore guerriero trasmessi dalla mitologia pagana – evidenti negli intrecci – con la misericordia e l’umiltà del cristianesimo delle origini – impliciti nei caratteri e nelle parole.
La smisurata conoscenza del mito e il suo amore per il linguaggio lo hanno portato a costruire un mondo di fantasia[1] in continua evoluzione, difficilmente assimilabile ad altri esempi tratti dal genere letterario[2] in cui viene tradizionalmente catalogato, e per questo più opportunamente comparabile all’epica.
Gran parte del suo lavoro è paragonabile alla realizzazione di un’opera architettonica senza precedenti. Se è vero che la Recherche di Proust è stata definita “opera-cattedrale”, la produzione tolkieniana può essere definita la “Sagrada Família” della letteratura inglese, una struttura maestosa e imponente, ma continuamente sottoposta a un delicato lavoro di restauro.
Ciò che mi fa apprezzare ancor di più l’opera certosina di Tolkien è la presenza evidente di una linea parallela che storia e linguaggio sembrano seguire costantemente: come testimoniato dalle preziose appendici presenti nelle curatele del figlio Cristopher, molti dei racconti tratti dal Silmarillion si sono evoluti nel corso del tempo in base ai cambiamenti che l’autore apportava ai linguaggi da egli stesso inventati. Dai primi esempi di proto-elfico alle forme più raffinate del Quenya e del Sindarin, non solo i nomi, ma anche le caratteristiche dei personaggi e degli intrecci mutano[3]. Senza dimenticare che la psicologia del personaggio è ricamata sulle caratteristiche della lingua da questi parlata: come idioma “alto e sapienziale”, il Quenya è la lingua degli Elfi Chiari, i Calaquendi, coloro che sono illuminati dalla luce dei Valar, dalla cui saggezza possono attingere direttamente; d’altra parte il Sindarin nasce come lingua parlata dagli Elfi Grigi, per poi estendersi a idioma comune a tutte le genti elfiche della Terra di Mezzo. Una lingua meno elegante, che, come sottolinea Flieger, rivela un rapporto più tenue e offuscato con la luce e che apre maggiori possibilità all’oscurità, alla violenza e alla brama di possesso[4].
Tolkien, inoltre, era un intellettuale conservatore che disprezzava il moderno ideale di progresso e preferiva rifugiarsi in un mondo d’incanto, che la magia della sua scrittura riusciva a rendere vivo ed estremamente concreto. Uno dei maggiori pregi dello stile tolkieniano, infatti, è quello di conferire una straordinaria efficacia visiva ai luoghi e agli eventi, non solo nella prospettiva di un lettore che si immedesima in un particolare passaggio dell’opera, ma anche come volontà di recuperare un modello di ambiente naturale che ci spinga a ritornare ai principi di armonia, equilibrio e rispetto. Amante degli alberi e del verde della sua Inghilterra, Tolkien temeva infatti che i ritmi sempre più avvolgenti e frenetici dell’industria avrebbero soffocato la natura, privando le piante e le creature dei boschi del respiro e della linfa vitale.
Ed è forse quest’ultimo aspetto che rende il punto di vista di Tolkien – scrittore antimoderno nello stile e nelle intenzioni – estremamente attuale. Chissà che cosa avrebbe pensato se avesse visto i danni provocati dal surriscaldamento globale, e quindi dall’incuria dell’uomo, all’intero ecosistema[5]. Chissà quanto dolore gli avrebbe procurato la vista dell’Amazzonia e dell’Australia in fiamme.
Per certi versi, è forse un bene che non sia vissuto abbastanza a lungo da vedere le reali conseguenze del progresso, dallo sfruttamento smodato delle risorse alle disuguaglianze sociali create dalla brama di possesso. Sta a noi, allora, continuare a leggere Il Signore degli Anelli, a svestirlo delle allegorie politicizzanti e a trovarci quell’applicabilità al reale che lo stesso Tolkien incentivava e che, oggi più di ieri, è sotto gli occhi di tutti i lettori.
L’Anello del Potere, lungi dall’essere stato distrutto, è ancora in circolazione. E la nostra amata Terra di Mezzo è in grave pericolo.
NOTE:
[1] Termine che consiglio di usare con particolare cautela, quando si tratta di Tolkien. In questo caso lo si intenda più nel senso di un universo redatto tramite inventio narrativa, ossia l’arte dello scrittore di costruire delle storie. Sarebbe un errore presupporne la finzione, giacché il professore era fermamente convinto che per essere in grado di scrivere racconti sul mondo di Feeria (“il mondo delle fate”, degli elfi e di tutte le altre creature fantastiche) bisognasse, in ultima istanza, credere alla sua esistenza, pensare che fosse conosciuto in tempi remoti e che gli uomini abbiano poi finito col dimenticarsene.
[2] Lo Hobbit e Il Signore degli Anelli sono considerati tra le opere cardine del fantasy, ma collocarle all’interno di questo genere costituirebbe un’erronea deviazione rispetto alle intenzioni dell’autore che, con esse – ma ancor più con le storie narrate ne Il Silmarillion – intendeva creare una “mitologia per l’Inghilterra”.
[3] Un esempio lampante è l’evoluzione della storia di Beren e Lúthien: dal “Racconto di Tinúviel” al Quenta Silmarillion, cambiano non solo i nomi dei protagonisti, ma anche le origini (Beren, all’inizio, era uno “gnomo”, un elfo della stirpe dei Noldoli, per poi passare progressivamente allo status di uomo, della progenie di Beor), così come la natura del nemico (ad esempio, il più temibile servo di Morgoth, prima di essere “Sauron”, è “Tevildo” principe dei gatti, e poi Thû il Negromante).
[4] Come evidente soprattutto nelle vicende di Thingol, di Fëanor e dei suoi figli.
[5] Per una lettura “ecologista” delle opere di Tolkien, si veda l’ammirevole saggio Tolkien. Mito e modernità di Patrick Curry.