Cultura

Storia di un cacasotto che imparò ad amare il cinema Horror

C’è una famosa massima, attribuita da Plutarco a Giulio Cesare, che recita: Nihil nobis metuendum est, praeter metum ipsum. “Non dobbiamo aver paura di nulla, se non della paura stessa”.
Se vogliamo credere al biografo greco e alla sua Vita di Cesare, non ci stupirà che una frase simile sia stata pronunziata da uno che di infondere terrore se ne intendeva.
A dire il vero, sebbene gli aforismi spesso aiutino a far propri concetti complessi condensandoli in pochi versi, dietro alla paura si nasconde tutta una serie di meccanismi psicologici e istintuali la cui spiegazione non può essere in alcun modo ridotta a singole frasi.

Non essendo uno psicoanalista, non è mio compito decifrare l’origine della paura o, per meglio dire, delle forme con cui la paura si manifesta. Piuttosto, quello che vorrei fare è raccontarvi una storia. La mia.
Da bambino non ero particolarmente socievole o popolare. Ero timido, impacciato, introverso e, in alcune circostanze, un po’ goffo. Non avevo molti amici e quei pochi che mi stavano accanto non sempre mi sopportavano con facilità. A quei tempi, provavo un grande spavento al solo approcciare esperienze reali e, di conseguenza, preferivo rifugiarmi nelle alternative che mi offrivano la televisione, il computer e le prime console di videogiochi.
Ero terrorizzato da qualsiasi cosa: sangue, buio, rumori forti, altezza, bulli, e così via. Essendo per natura ipersensibile, ogni emozione era vissuta da me in maniera più intensa e drammatica del normale. E la paura non faceva eccezione.

Ai tempi i film che amavo di più erano le pellicole d’animazione e i blockbuster d’avventura e di fantascienza. Naturalmente, cercavo di evitare tutto quello che nei palinsesti televisivi era segnato con il fantomatico bollino rosso, un po’ perché sapevo che i miei genitori si sarebbero infuriati, un po’ perché ero perfettamente consapevole che non avrei chiuso occhio per tutta la notte.
Dopotutto, come può un bambino, rimasto traumatizzato da certe scene del Nightmare before Christmas di Tim Burton, pensare di poter guardare un thriller o, ancor peggio, un horror senza farsela sotto dalla paura? E dire che, già ai tempi delle medie, molti miei compagni, per farsi più grandi e coraggiosi, millantavano di adorare quei maledetti film pieni di sangue e di cattiveria. Ingenuo com’ero, non sentavo a crederci.         

Si potrebbe pensare che, crescendo, la mia sensibilità si evolvesse, consentendomi di tanto in tanto una rapida fuga in quel mondo che era stato bandito dal mio ego, ma che certe pulsioni, a livello inconscio, invitavano a scoprire. Questo è parzialmente corretto, benché il mio essere ipersensibile alle umane esperienze non si fosse per nulla attenuato. Incontrando certe opere di letteratura e di filosofia, e costruendomi una prima impalcatura di conoscenze, cadevo sempre più in una visione drammatica e teatrale dell’esistenza.
Ad ogni modo, risalgono proprio a questi anni i primi fallimentari tentativi di approcciare il genere horror. Guardai pellicole celebri come L’esorcista, The Ring, Saw, ma anche robaccia di infima qualità come Paranormal Activity, e, nonostante quest’ultimo non suscitasse la benché minima reazione nella maggior parte del pubblico, io ne rimasi comunque terrorizzato. Non sopportavo i colpi di scena, le inquietanti colonne sonore, la ricorrente stupidità dei personaggi e delle loro scelte. Odiavo con tutto me stesso i cosiddetti jumpscare, che mi facevano battere il cuore all’impazzata e perdere il respiro. In definitiva, non riuscivo a sopportare tutta quella violenza che consideravo gratuita e priva di significato. E, all’apparire dei titoli di coda, cercavo ogni volta delle giustificazioni ripetendo a me stesso che io, nel cinema, avrei dovuto cercare ben altro.

Un giorno, però, tutto cambiò. Ero ormai uno studente universitario e le mie onnipresenti paure avevano assunto ulteriori sembianze: la prospettiva del  fallimento, la sofferenza per cattive relazioni sentimentali, l’incertezza per il futuro. In quel periodo, leggevo La filosofia nel boudoir del Marchese de Sade, non proprio una lettura leggera, se si pensa a quanta perversa malvagità emerga da quelle pagine. Ricordo, però, che rimasi piacevolmente colpito dall’architettura filosofica sulla quale si reggeva l’intero racconto, e, al di là degli episodi in cui l’umana perversione viene descritta senza esitazioni e senza remore, riuscii ad apprezzare il messaggio dell’autore e compresi che, nelle opere di qualità, la violenza non è mai priva di senso, ma veicola un significato ben preciso. Che può essere denuncia di una morale ipocrita e oppressiva, espressione estrema di libertà e individualismo, desiderio di celebrare l’Eros e la Vita mettendone in rilievo gli opposti.     

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Incuriosito dalla spregiudicatezza del Marchese, mi accostai alla visione di un film che doveva molto alle sue opere più controverse: Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) di Pier Paolo Pasolini.
Pur non essendo un horror, Salò mette in scena un tale grado di violenza da scatenare immediate reazioni di disgusto e disprezzo negli spettatori più sensibili. Pasolini si spinse consapevolmente ben oltre la morale del tempo, se è vero che la sua pellicola continua a scandalizzare persino i più smaliziati spettatori di oggi. Ma l’obiettivo del poeta e regista era proprio quello: destare scandalo. E non c’è niente di più scandaloso della natura umana.           
Al di là delle considerazioni che potrebbero fare i critici, quello che mi preme sottolineare è che, guardando le scene di tortura e di violenza (solo in apparenza gratuita), io provai un’enorme sofferenza. Ma più del soffrire poté la rabbia. Perché ci si può solo lasciare andare alla collera quando, dietro al velo del grottesco e dell’iperbole, si scorge il Vero nella sua cruda nudità.          
Per il sottoscritto Salò fu una rivelazione e un punto di svolta. Era come se, d’un tratto, avessi acquisito la capacità di mantenere una certa distanza rispetto a tutto ciò che accadeva sullo schermo. Come se, finalmente, avessi compreso la differenza tra realtà e rappresentazione. In altre parole, Salò di Pasolini riuscì dove Kant, Schopenhauer e Husserl avevano fallito.

Allora, orgoglioso della mia nuova in-sensibilità, mi gettai a capofitto in quel genere cinematografico che più di ogni altro intendeva mostrare la natura umana nella sua violenta bestialità. Questa volta, tuttavia, calibrai le mie scelte con un certo rigore.
Così, mi dilettai tra film come Babadook (Jennifer Kent, 2014) e serie TV come American Horror Story, e, nel tempo, arrivai a visionare persino le pellicole più cruente come Cannibal Holocaust (1980) di Ruggero Deodato, Martyrs (2008) di Pascal Laugier e l’esagerato A Serbian Film (2010) di Srdan Spasojevic.
Se prima evitavo horror e splatter sia per naturale intolleranza alla vista del sangue sia per un disprezzo culturalmente indotto verso la violenza mostrata senza filtri, ora riuscivo ad apprezzare la qualità di tutte quelle pellicole che riuscivano a mostrare il volto reale della paura.    
Angoscia, inquietudine, sospensione delle certezze. Un dramma umano colto in tutta la sua complessità, e non solo un’esplosione incontrollata di fluidi e corpi de-strutturati.

Alla fine di questo percorso di crescita, sono arrivato al punto di poter valutare e scegliere, all’interno di una videoteca personale (a dir la verità, ancora incompleta), una serie di film horror che ho amato e che mi sento di consigliare a chiunque ami il genere.
Oltre ai titoli già citati e ai classici che chiunque dovrebbe aver visto – tra i tanti, Profondo Rosso e Suspiria di Dario Argento, Shining di Stanley Kubrick, Psyco e Gli Uccelli di Alfred Hitchcock, La Cosa e Essi vivono di John Carpenter, La notte dei morti viventi e Zombi di George A. Romero -, i film che più mi hanno colpito negli ultimi anni sono quelli diretti dai giovani registi americani Robert Eggers e Ari Aster.

The VVitch (Robert Eggers, 2015)

Del primo ho amato il background folclorico in The VVItch (2015), in cui spicca la performance di una già talentuosa – e ora pienamente affermata – Anya Taylor-Joy. In questo caso, il topos della strega viene collocato in uno sfondo e in un’atmosfera che evocano alla perfezione i racconti del folclore germanico e certe fiabe d’epoca romantica, non ancora edulcorate dalla sensibilità e dalla morale contemporanee.
Eggers, poi, ci ha lasciato un vero capolavoro, The Lighthouse (2019), che, già con il bianco e nero e il calibro 35 mm, richiama suggestioni di un’epoca ormai lontana. Alienazione e spaesamento derivati dalla solitudine e dalla convivenza forzata con una persona che si detesta in maniera viscerale: questo è il vero terrore. Che dire poi dei due attori protagonisti, Robert Pattinson e Willem Dafoe? Strepitosi nel trasmetterci un dramma che si consuma lentamente, giorno dopo giorno, per poi esplodere in un flash e in un ultimo disperato grido.

Ari Aster, dal canto suo, ci ha regalato due pellicole d’altrettanto pregevole fattura. In Hereditary (2018), il regista imbastisce un dramma famigliare con un tocco di fantastico. Ma, più degli elementi per così dire sovrannaturali, quel che davvero colpisce lo spettatore è il totale stravolgimento delle relazioni tra genitori e figli. Uno stravolgimento che genera una domanda obbligata nel pubblico: che cosa avremmo fatto e come ci saremmo comportati in una simile circostanza? Impossibile dare una risposta certa quando si tratta di eventi possibili ma che percepiamo e vogliamo percepire come lontanissimi dalla nostra realtà.
Con Midsommar (2019), Aster, se possibile, alza ancora di più l’asticella. Se, in prima battuta, il regista ci mostra le inattese sventure di un gruppo di amici in un curioso e colorato villaggio svedese, più in profondità quel che possiamo apprezzare del film è la rivelazione di una ritualità che non è poi così inverosimile e che rimanda a un passato di sacrifici, vaticini e riti propiziatori. A destare scandalo nello spettatore, tuttavia, è la serena e pacifica accettazione con cui gli abitanti del villaggio concepiscono la violenza rituale. Estrema conseguenza di un indottrinamento culturale perpetrato nel tempo.     

Ci sarebbe molto da dire su queste e altre pellicole che mi hanno colpito per intensità e qualità, ma, come scritto all’inizio, quello che volevo fare era raccontare una storia. La storia di un bambino terrorizzato da tutto che, negli anni, ha imparato a convivere con la paura. Se non con la paura reale, perlomeno con quella sullo schermo. 

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