[Trascrizione dell’intervento tenuto in occasione della puntata della Radio “La Voce di Arda” del 3 Dicembre 2021, intitolata “Tolkien e il Fantasy: all’origine di un nuovo genere letterario”]
Quando si tratta di categorizzare la produzione di un autore, si corre sempre il rischio di cadere in errori di semplificazione. Attribuire, infatti, questo o quel genere letterario a un autore senza criticare, cioè, etimologicamente, senza sottoporre criticamente a giudizio le precise caratteristiche della sua poetica, può dar vita a riduzioni semplicistiche oppure addirittura a errori piuttosto ingenui.
Parlando di J.R.R. Tolkien e delle sue opere, risulta piuttosto semplice associarlo a quel genere ormai divenuto estremamente popolare che è il fantasy: una macro-categoria letteraria che include apprezzabili esempi di narrativa degli ultimi due secoli, accomunati da intrecci, ambientazioni, temporalità e archetipi comuni.
A proposito del fantasy, l’aggettivo “popolare” appare sicuramente calzante, se si pensa a quella straordinaria opera di espansione culturale che certi prodotti, un tempo limitati alla sottocultura geek e nerd, hanno conosciuto grazie alla loro commercializzazione in massa, favorita in larga parte dall’impatto globale della rete e dal proliferare dei dispositivi digitali che garantiscono l’accesso a una quantità pressoché illimitata di contenuti digitali. Ecco, oggi, nella società della serialità in streaming, il fantasy è considerato parte integrante – una parte forte e, potremmo dire, trainante – di una cultura cross-mediale di massa; accettato in larga parte e non più ghettizzato come accadeva negli Anni Ottanta e Novanta – un processo favorito sicuramente anche da una prevalenza sempre più netta di un sentimento comune basato su una nostalgia idealizzante.
Chiaramente, il contesto culturale contemporaneo è ben differente da quello in cui operava J.R.R. Tolkien. All’epoca, il fantasy era un genere agli albori e sicuramente l’uso più frequente della parola riguardava semplicemente la facoltà di Immaginazione Creativa: la Fantasia. L’associazione, dunque, e la conseguente definizione di Tolkien come “padre del fantasy” sono in larga parte consequenziali alla massificazione dell’opera tolkieniana in seguito alla trasposizione cinematografica operata da Peter Jackson. Ciò non equivale a dire che, a un certo punto della storia, Tolkien è diventato arbitrariamente un autore fantasy. Semplicemente, si è iniziato a categorizzarlo in maniera più netta, partendo dagli aspetti più “celebri” del suo lavoro e tralasciando quei lati più accademici e “di nicchia” della sua produzione.
Del resto, anche volendo volgerci al passato, noi non abbiamo molte testimonianze delle opinioni del Professore riguardo a questo genere letterario. Una lettera dell’11 settembre 1957 (indirizzata al figlio Christopher e alla nuora Faith) ce lo mostra “sorpreso” nello scoprirsi vincitore di un “International Fantasy Award” alla quindicesima edizione della World Science Fiction Convention. Impegnato com’era nel perfezionamento del suo legendarium, Tolkien non si soffermò poi così tanto sull’evento, se non per esprimere alcune perplessità sulla bizzarra forma e sul gusto discutibile del premio (un modellino metallico di un razzo spaziale capovolto e combinato con un accendino Ronson), e per rivolgere alcuni rapidi apprezzamenti ai discorsi pronunziati per l’occasione.
Dall’epistolario e, soprattutto, da alcuni interventi in ambiente universitario – poi formalizzati in saggi – si evince invece il punto di vista del Professore su un tipo di letteratura che si pone come scopo l’Evasione. Ebbene, per come è andato configurandosi nel corso della storia, il fantasy è ritenuto un genere letterario d’evasione par excellence, insieme alla fantascienza e ad altra narrativa di genere. Sinonimo di letteratura poco impegnata, il fantasy è stato, soprattutto in ambienti accademici, relegato a una serie minore, figlio indesiderato della Fiaba, dell’Epica e del romanzo storico. Se limitiamo il genere a una necessità di evasione dalla realtà, di disimpegno e distacco rispetto a una narrativa che, invece, affronta criticamente il reale e lo interpreta senza mezze misure, allora non possiamo che averne una considerazione negativa. E, di conseguenza, anche il contributo di Tolkien finisce per essere messo in secondo piano rispetto a un Kafka o a un Dickens, per esempio. Ma il punto è questo: siamo proprio sicuri che l’opera di Tolkien abbia solo a che vedere con l’evasione – escapism in inglese? E se così fosse, ci sarebbe davvero motivo di ritenere l’evasione un tratto svilente per certa letteratura?
Per rispondere adeguatamente alla domanda, io credo sia fondamentale prendere in considerazione le parole che Tolkien pronunciò in occasione della conferenza Andrew Lang dell’8 marzo 1939 all’Università di St. Andrews, poi messa per iscritto e pubblicata, con qualche aggiunta e modifica, come un saggio dal titolo On Fairy-Stories. Un testo divenuto, nel tempo, fondamentale per comprendere al meglio la concezione tolkieniana del fantastico e la sua idea di “Reame Periglioso”.
Ebbene, in questo intervento, Tolkien parlò a lungo e in modo illuminante delle fiabe (genere a cui possiamo facilmente associare molti dei suoi racconti, tra cui Lo hobbit), arrivando ad affermare che certe storie offrono al lettore alcuni strumenti fondamentali: Fantasia, Riscoperta, Evasione e Consolazione.
Per Fantasia Tolkien intende qualcosa che va oltre la semplice Immaginazione, che, anzi, unisce Immaginazione sub-creatrice e Fantasticheria (fancy): ossia, «il potere di dare a delle creazioni ideali l’intima consistenza della realtà» (Sulle fiabe, p. 206). Non è dunque qualcosa che allontana l’individuo dal reale, ma anzi cerca di portarne l’interiorità – le figure ideali influenzate anche da quegli archetipi di cui parlava Carl Gustav Jung a proposito dell’inconscio collettivo – nella realtà, cerca di esteriorizzare e concretizzare l’idea dandogli il profumo e il sapore della realtà. Per questo, dice Tolkien, la Fantasia si pone come la forma più pura di Arte, che sappiamo essere, fin dalla lezione di Denis Diderot, un «metodo di interpretazione qualitativa» della realtà naturale.
L’uso della fantasia non è un consapevole allontanamento dal mondo, piuttosto si manifesta come una netta presa di coscienza di uno status reale, come, usando le parole di Tolkien, «la dura consapevolezza che le cose sono proprio così nel mondo». Del resto, lo stesso professore oxoniense lo dice: per poter scrivere buone fiabe, bisogna crederci. Per poter descrivere in maniera adeguata Faërie bisogna essere consapevoli della sua reale esistenza. In questo, Fantasia e Realtà non sono due dimensioni opposte, ma la fantasy è piuttosto il ponte che collega l’Io al mondo esterno e, mutatis mutandis, l’interiorità dell’Ego all’esteriorità pre-esistente del Super-io.
La Fantasia è una lente di ingrandimento che ci consente di guardare il mondo con sfumature e tonalità differenti. Come scrisse Marcel Proust, «l’unico vero viaggio verso la scoperta non consiste nella ricerca di nuovi paesaggi, ma nell’avere nuovi occhi». Precisamente, la Fantasia è quel paio di occhiali che ti assicura di poter riscoprire il mondo sotto un altro punto di vista. «Zu den Sachen selbst!» Andare alle cose stesse, come recitava il motto di Edmund Husserl e della fenomenologia: entrare nell’intima profondità delle cose attraverso il nuovo canale aperto dalla Fantasia. Questo è appunto il senso della Riscoperta fiabesca, che Tolkien definisce sinteticamente «il riacquisto di una chiara visione».
Quella dei racconti fantastici, dunque, non è mai mera invenzione, bensì è la riacquisizione di un desiderio profondo, come può essere visitare foreste a perdita d’occhio, immergersi nelle profondità dell’oceano, oppure librarsi in volo ad altezze straordinarie.
Ma veniamo al punto più importante: le Fiabe offrono anche Evasione. Tolkien non si limita a dirlo chiaramente, ma anzi ammette di non sopportare il tono sprezzante con il quale la parola “evasione” già ai suoi tempi veniva trattata. Egli dice che i critici hanno confuso «l’Evasione del Prigioniero con la Fuga del Disertore» (p. 218): la prima può avere caratteri eroici, la seconda, invece, è solo una ridicola manifestazione di codardia. Evadere significa inserire nel mondo reale qualcosa che dia colore alla quotidianità, è un aggiungere, più che un togliere, è un dare valore, non uno svalutare. Persino gli elementi più strani e arcaici, dice Tolkien, aggiungono qualcosa e non dovrebbero suscitare alcuna vergogna. Ma, soprattutto, la vera grande Evasione, precisa, è il desiderio di Evasione della Morte, e in questo la Fiaba consente di indirizzarci verso una buona strada, ovvero la via indicata dall’Eucatastrofe, dalla gioia per il lieto fine, dal sollievo catartico per il superamento del tragico.
Considerando questi elementi, risulta piuttosto evidente che l’applicazione semplicistica di Tolkien al genere fantasy debba quantomeno dotarsi di alcuni argomenti specifici o, ancor meglio, riconoscere i limiti di una siffatta associazione. Un buon lettore tolkieniano sa benissimo quale fu l’intento all’origine della stesura del legendarium – la creazione di una «mitologia per l’Inghilterra». Egli conosce alla perfezione il modus operandi del Professore, una mente creativa che funzionava per associazioni archetipiche e che sapeva trarre dalle sue enormi conoscenze, in fatto di mito e di linguaggio, le influenze necessarie alla creazione delle sue storie. Per questo motivo, il lettore consapevole sa che una storia come Lo hobbit può essere sì ritenuta un’opera fantasy, ma sarebbe più preciso chiamarla «fiaba». Lo stesso dicasi per gli altri racconti come Roverandom, Il cacciatore di draghi, Il fabbro di Wooton Major…Quando leggerà Il Signore degli Anelli, egli vi troverà quel sentore trobadorico – e quell’idea di “cerca”, di quête – che lo indirizzeranno verso un facile paragone con la letteratura cortese alla Chrétien de Troyes o alla grande epica cavalleresca del Cinquecento e del Seicento (Ludovico Ariosto, Matteo Maria Boiardo, Torquato Tasso, Miguel de Cervantes). Quando, infine, avvinto dal desiderio di conoscere le origini del cosmo tolkieniano, si avvicinerà alle complicate pagine del Silmarillion, il lettore ricorderà i passaggi più celebri e amati della Teogonia di Esiodo, dell’Iliade e dell’Odissea di Omero, di tutti i grandi miti che raccontano le origini dell’universo, della Terra e delle potenze che vi hanno regnato.
In conclusione, se ne deduce che ascrivere Tolkien al solo fantasy – fosse anche high fantasy come alcuni sostengono – è quanto mai riduttivo, poiché dalle sue opere scaturisce una moltitudine variegata di influenze letterarie che non possono essere facilmente categorizzate. Nel lavoro del Professore, c’è la precisione della ricostruzione filologica – e lo zelo dell’accademico -, ci sono la musicalità e il ritmo poetico dell’epica in versi, ci sono la potenza e il pathos lirico del romanzo di guerra, c’è la circolarità del romanzo d’avventura (e del diario di viaggio). Insomma, quello di Tolkien è un vero e proprio un microcosmo narrativo che, lungi dal poter essere catalogato, dev’essere trattato nella sua irriducibile ricchezza.