Cultura

Guido, Antonia, Miro: filosofia e vite spezzate nella scuola di Antonio Banfi

Quando il senatore romano Severino Boezio scriveva il suo De consolatione philosophiae, tra 523 e 524 d.C., poco prima di essere giustiziato, l’idea che la Filosofia potesse offrire un rimedio alla umana sofferenza, nonché una risposta efficace alla pressante vicinanza della Morte, era ancora piuttosto solida.        
Ma che la stessa Filosofia potesse, al contrario, avvicinare la persona, fragile e inquieta per natura, a pensieri luttuosi o, addirittura, suicidi, beh, questo non lo si doveva pensare così frequentemente.

Con il passare del tempo e delle epoche, del resto, si è sempre più consolidata la convinzione che la conoscenza fosse uno strumento per arricchire (e non impoverire, o destabilizzare) la vita.
Solo il Novecento, secolo delle inquietudini che hanno messo in crisi qualsiasi idea solida di Soggetto (non per niente il secolo della psicoanalisi, dei nazionalismi e dei totalitarismi), poteva arrivare a mettere in dubbio tutta quella valenza positiva, pedagogica, e finanche psicagogica[1], della filosofia, instillando il seme dell’incertezza e dell’instabilità in coloro che hanno provato, a quei tempi, ad avventurarsi nell’inferno del pensiero.

Succede così che, per affrontare quel vento di novità portato dai nuovi grandi interrogativi, si formino assemblee, circoli, gruppi di intellettuali dalla estrazione socio-culturale più varia. E che questi gruppi si accrescano sempre più fino a formare vere e proprie scuole, dominate da figure carismatiche in grado di trascinare adepti e rivoluzionare paradigmi. Così accade nella Milano dei primi anni Trenta, in una facoltà di Filosofia che da poco aveva visto l’avvicendarsi di due docenti di spicco, per una cattedra di spessore come quella di Estetica: nel 1931, infatti, al poeta e germanista Giuseppe Antonio Borgese era subentrato un promettente allievo di Piero Martinetti, Antonio Banfi.

In poco tempo Banfi, che alla Statale insegnava anche Storia della Filosofia, divenne il centro propulsore della diffusione di idee nuove, anti-dogmatiche, dalla grande forza attrattiva. Interprete sopraffino della lezione husserliana, uomo estremamente colto e attento alle relazioni umane, si circondò ben presto di allievi di talento, molti dei quali, però, celavano fragilità insanabili, difficili da controllare anche per un uomo della sua intelligenza e del suo carisma.

Che fosse nella sede di Porta Romana (poi distrutta dai bombardamenti nel 1943 e sostituita dal complesso di Via Festa del Perdono) o al caffè di Piazza Sant’Alessandro, detto il “Baccanino” ( da pronunciarsi rigorosamente con cadenza bresciana, come voleva il poeta Vittorio Sereni), allievi e maestro si riunivano piacevolmente per discussioni ed esercitazioni (famose quelle del “giovedì”, ricorda Luciano Anceschi), a proposito di quegli autori che lo stesso Banfi contribuì a diffondere e ad approfondire: Georg Simmel, Friedrich Nietzsche, Karl Marx, Sigmund Freud, Edmund Husserl, e via discorrendo.

Il fascino del maestro era tale da riportare alla memoria quella capacità, in dote ai grandi pensatori greci, di attirare magneticamente a sé gruppi di giovani affamati di conoscenza. Gli studenti adoravano le lezioni del professore, perché, come scrive Anceschi, in esse «vedevano il rifiuto di un mondo chiuso» e «avvertivano il proposito di una nuova fondazione di una nuova possibilità, o […] di una nuova speranza»[2].       
Il “razionalismo critico” banfiano era sostenuto da una poderosa forza liberatrice, che rifiutava i dogmi imposti dai sistemi filosofici tradizionali, che sradicava la loro parzialità, che proponeva un nuovo «stile di pensiero» e, contestualmente, un nuovo modo di intendere e di fare ricerca.       
Una sorta di “religione civile”, per citare la definizione di Alberto Pedroli[3], che viveva del potere persuasivo del maestro, ma anche del senso di responsabilità che cadeva sugli allievi, della loro capacità di prendere decisioni critiche in fatto di studio e di vita. Vi si trasmetteva una libertà di spirito tutta imperniata sulla relazione attiva tra soggetto e oggetto, sulla comunicazione intensamente biunivoca tra docente e discente.

Di questa forza liberatrice poté godere una schiera assai importante di giovani pensatori, alcuni dei quali, poi, si fecero un nome e una carriera. Enzo Paci, il già citato Luciano Anceschi, Vittorio Sereni, Fulvio Papi, Dino Formaggio, Giulio Preti, Remo Cantoni, Alberto Mondadori, Livio Garzanti sono solo alcuni dei giovani che fiorirono sotto l’egida di Banfi.

Altri, però, non riuscirono a capire quella forza, o perlomeno non furono in grado di usarla per strappare la propria vita dalle catene dell’inquietudine e della sofferenza. O, forse, fu proprio l’energia rivoluzionaria del pensiero e del carisma di Banfi ad aggravare la crisi di queste fragili personalità. Del resto, ogni intelletto indipendente reagisce in un modo irriducibilmente suo agli stimoli e alle influenze del mondo esterno, pertanto va da sé che non tutti gli allievi di Banfi abbiano colto allo stesso modo i suoi insegnamenti.

Alcuni di questi, in effetti, incespicarono, faticarono, infine si persero e annegarono nel dolore.           
Il primo a farsi sopraffare da questo nuovo modo di pensare fu un brillante studente di ventun anni. Si chiamava Gianluigi Manzi ed era un appassionato lettore di Thomas Mann, tanto da dedicarvi la propria tesi di laurea, ovviamente con la supervisione di Banfi. Il 17 maggio del 1935 Manzi ingerì una quantità notevole di barbiturici e si gettò nel vuoto, ponendo fine anzitempo alla sua vita. Doveva essere un uomo assai sensibile, il giovane Manzi. Un’anima gentile di rara intelligenza.

Il suo suicidio fu un evento scioccante.       
Il 23 maggio, sei giorni dopo la tragedia, Antonia Pozzi scrisse la poesia Intemperie. Ai vv. 10-14, compare un’allusione alla triste sorte dell’amico:

Ora in lontani viali     
un compagno barcolla,
trasportando un morto:
gli cadono sul viso       
le palpebre come spente viole
.[4]

L’evento tracciò un solco profondo nelle vite dei giovani banfiani.           
Vittorio Sereni e Antonia Pozzi ne soffrirono forse più degli altri, se è vero che la giovane poetessa ebbe più volte a ricordare il destino sventurato di Manzi, e nei diari («Io sono una donna, ma devo essere più forte del povero Manzi che si è ammazzato per una ragione uguale alla mia»[5]) e nella corrispondenza («Povero Manzi: senza saper niente, mi chiamava Tonia Kröger»[6]).

La stessa Antonia Pozzi, d’altronde, non seppe trovare la forza per superare la grave inquietudine che pesava sul suo animo delicato, nudo, esposto alle intemperie del sentimento. Asfissiata dal mal d’amore, da delusioni e sogni infranti, piegata dal desiderio mai realizzato di una felice vita coniugale e della maternità, Antonia cercò dapprima un rifugio negli ambienti montani, a lei tanto cari (Pasturo, la Grigna, Madonna di Campiglio e le Dolomiti), ma poi anche lì venne assalita dai fantasmi degli amori perduti o mai principiati. E allora, dopo alcuni tentativi sventati dalla famiglia, anche lei pose fine alla sua fragile esistenza.

Il 3 dicembre del 1938, in una serata nevosa, Antonia si recò al monastero di Chiaravalle, non lontano dal quartiere operaio di Rogoredo. Si sdraiò nel giardino antistante, ingerì dei barbiturici e, coricata sull’erba, attese la morte. Il corpo, ritrovato alcune ore più tardi, venne sepolto nel piccolo cimitero di Pasturo, poco distante dalla villa di famiglia.

L’insegnamento di Banfi fu per Antonia Pozzi un momento decisivo, ma, al tempo stesso, le inferse una ferita sanguinolenta, mettendo in crisi le certezze sulla sua vocazione: la poesia. Quando, infatti, la giovane poetessa fece leggere alcuni suoi lavori al maestro, la reazione di lui fu ben poco diplomatica. «Signorina, si calmi» fu la risposta del filosofo.         
Al contrario, Banfi si rivelò particolarmente d’aiuto quando si trattò di lavorare alla tesi su Gustave Flaubert, mettendo in luce ed esaltando il talento della sua allieva. E da questa collaborazione Antonia uscì complessivamente rinfrancata. Ciò nondimeno, sarebbe ingenuo pensare che lei avesse dimenticato la stroncatura alla sua poesia, poi riverberata dal giudizio di Enzo Paci («Scrivi il meno possibile»). Benché sia ingiusto ricondurre il suicidio soltanto a questa delusione, è altresì evidente che anche nella tragica vicenda di Antonia Pozzi la presenza di Banfi compaia come elemento destabilizzante, capace di alimentare dubbi e accrescere un senso di disperazione già vivido.

Quello di Antonia Pozzi fu indubbiamente il più celebre e dibattuto dei suicidi legati alla scuola di Milano, ma, purtroppo, non fu l’ultimo.           
Tredici anni dopo quel triste giorno di dicembre del 1938, un altro allievo di Banfi si tolse volontariamente la vita. Si tratta di Palmiro Martini, detto “Miro”, filosofo, autore di una densa trattazione intitolata La deformazione estetica.          
Originario del cremonese, Martini fu grande amico di Remo Cantoni, con il quale collaborò alle riviste “Studi filosofici e “Il pensiero critico”[7]. Appassionato di arte, musica e narrativa, Martini non si dedicò mai all’insegnamento e anche in fatto di produzione bibliografica fu assai parco. Era un uomo estremamente preciso nelle sue riflessioni e maniacale nel processo di scrittura, pesava ogni singolo pensiero con l’attenzione di chi era continuamente turbato dall’inquietudine della teoresi. Una crisi prettamente filosofica, però, non fu certamente l’elemento più decisivo. Nel 1943, infatti, il figlio maggiore di Martini morì improvvisamente. Il dolore fu tale da spingere Miro ad allontanarsi dai luoghi più amati, la città di Cremona e, soprattutto, la residenza di campagna a Torre de’ Picenardi.        
Dopo aver terminato la scrittura degli ultimi capitoli de La deformazione estetica, eroso dalla fatica e dal lutto mai assorbito, Martini si suicidò, il 22 novembre del 1951, giorno del suo quarantaseiesimo compleanno.

Una fatale congiunzione di drammi personali e instabilità teoretica fu alla base anche della morte volontaria di Giulio Preti e di Remo Cantoni. Il primo, scomparso a 61 anni nel 1972, non seppe superare la catastrofe che colpì la città di Firenze nel 1966, dove teneva la cattedra di Storia della Filosofia. Per diversi giorni in seguito all’alluvione, fu costretto a vivere in condizioni a dir poco precarie. Gravemente malato, partì per l’isola tunisina di Djerba senza portarsi dietro le pillole che l’avrebbero tenuto in vita. Si spense il 28 luglio del 1972.         
Allo stesso modo, Cantoni dovette convivere con il senso di perdita (in primo luogo, il vuoto causato dalla morte di Antonia Pozzi) e, al tempo stesso, portare avanti una lunga e aspra lotta contro il nichilismo, che, però, infine, dovette avere la meglio. Remo Cantoni, infatti, compì il gesto estremo e decise di abbandonare la vita di propria volontà il 3 febbraio del 1978.

Una menzione a parte, considerata l’indifferenza con cui fu trattata, la merita la storia personale di Guido Morselli. Cresciuto nell’agiatezza di una famiglia borghese, trasferito da Bologna a Milano e poi a Varese, Morselli fu allievo di Antonio Banfi quando quest’ultimo insegnava al liceo Parini. Ed egli stimò quel talentuoso studente a tal punto da firmare una prefazione al saggio Proust o del sentimento (uscito per Garzanti nel 1943 con contributo economico del padre).         
Morselli, però, dopo l’uscita di quel suo lavoro (e di un’altra pubblicazione auto-finanziata, Realismo e fantasia, Fratelli Bocca, 1947), non trovò mai fortuna nel mondo dell’editoria. A ogni tentativo letterario, che fosse un racconto, un romanzo, un pamphlet o una commedia, fece riscontro una serie interminabile di rifiuti. Un altro allievo di Banfi, Vittorio Sereni, nel frattempo nominato direttore letterario di Mondadori, ebbe a che fare con Morselli, vi iniziò una corrispondenza, ma non riuscì in nessuna occasione a trovare con lui un accordo per portare a compimento la pubblicazione (di Roma senza papa, nel caso specifico).

Tra 1972 e il 1973, dopo aver provato con i più diversi generi della narrativa, Morselli scrisse il suo ultimo testo, Dissipatio H.G., una fantasia post-apocalittica che gioca al confine tra dramma e ironia. Ma anche questa volta l’esito fu negativo.  
Esasperato dalla sventura, dall’indifferenza e dall’isolamento (in una certa misura, da lui stesso cercato) rispetto ai suoi contemporanei, Guido Morselli, la notte del 31 luglio 1973, decise di togliersi la vita. Prese la pistola Browning calibro 7 e 65 (oggetto-feticcio di Dissipatio H.G.), si coprì il volto con un panno bianco per non imbrattare la stanza di sangue, e fece fuoco.         
Ironicamente (ma non troppo), la sua fortuna iniziò solo con la sua morte. L’anno successivo, Luciano Foà, fondatore di Adelphi, iniziò la pubblicazione delle sue opere, a partire proprio da quel Roma senza papa che il grande Vittorio Sereni non ebbe il coraggio di pubblicare.


[1] Nella sua capacità di educare, di condurre le anime verso l’accettazione della morte.

[2] L. Anceschi, L’insegnamento di Antonio Banfi, in occasione del convegno “Antonio Banfi e cinquant’anni di cultura in Italia”, a cura dell’amministrazione comunale e della biblioteca civica di Vimercate (MI), 1977, p. 336

[3] A. Pedroli, I luoghi di un’amicizia, rmfonline.it, Varese, articolo del 19 ottobre 2012

[4] A. Pozzi, Parole. Tutte le poesie, a cura di O. Dino e G. Bernabò, Ancora Editrice, Milano, 2015

[5]  17 ottobre 1935.

[6]  lettera a Remo Cantoni, 19 giugno 1935.

[7] Per un approfondimento della figura di Miro Martini, si veda S. Chiodo, Miro Martini: una nota biografica, “Materiali di estetica”, 2002, n. 7, pp. 35-44.

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