L’umorismo calato nel reale: il ritorno al cinema di Aldo, Giovanni e Giacomo

Nel corso degli anni ho riflettuto molto sull’evoluzione – o l’involuzione – della commedia italiana. Mi faceva pensare come i tempi e i costumi potessero cambiare le occasioni e i modi di far ridere.
Allo stesso modo, mi stupivo di come solo in alcune commedie emergessero ritratti particolarmente precisi e fedeli di una certa italianità che andava modellandosi seguendo tratti più o meno estremizzati o stereotipati. Diamine, il tema mi era talmente caro che l’estate scorsa ne feci oggetto di lezione; e, nonostante fossi consapevole di quanto sia difficile far comprendere le radici di un umorismo come il nostro a una platea di studenti stranieri, il discreto successo riscontrato dall’esperimento mi regalò non poche soddisfazioni.

Questo per dire che, in tutta la mia vita, raramente m’è capitato di guardare un film comico senza volerci trovare dei messaggi che andassero oltre la mera volontà di suscitare una risata. Certo, se si tratta di gettarsi nel trash più squallido, sono il primo a rotolarmi tra i bidoni dell’immondizia come un randagio affamato. Ma il trash – perlomeno quello volontario e ragionato – assolve a una nemmeno troppo velata funzione di critica sociale, spesso nascosta sotto strati di esagerazione, stereotipi e nonsense portati all’eccesso (ne sono un esempio lampante Italiano Medio e Omicidio all’italiana di Maccio Capatonda). Quindi, ad essere onesti, il cervello non lo si spegne mai del tutto.

Certo, se l’argomento di discussione è la commedia con la C maiuscola, il novero dei film da considerare si assottiglia e rifiuta con decisione certi prodotti contemporanei che di concetti da trasmettere ne hanno ben pochi. Spesso e volentieri – ed è la nostra tradizione culturale a dimostrarlo – i casi più pregevoli e apprezzati sono quelle pellicole che uniscono al sollievo della risata un retrogusto di amaro realismo, una malinconia di fondo che ci impedisce di godere a pieno della catarsi finale, o ancora, come direbbe J.R.R. Tolkien, una “dura consapevolezza che le cose sono proprio così nel mondo”.

Ed è per questo che i film del trio comico milanese Aldo, Giovanni e Giacomo hanno sempre occupato un posto d’onore e nella filmografia umoristica nazionale e nella mia personale cineteca.
La comicità proposta da questi tre amici, soprattutto nella prima parte della loro produzione, è lontana sia dalle esagerazioni fantozziane sia dalla bonarietà e dalla “cattiveria” degli Amici di Monicelli, ma, soprattutto, è distante anni luce da quelle pellicole prodotte in serie che si basano sempre sullo stesso gioco di equivoci, sugli stessi intrecci, su nudità e volgarità esibite senza filtri.

La risata che scaturisce vedendo certe scene di Tre uomini e una gamba, Così è la vita, Chiedimi se sono felice è motivata da una profonda e consapevole immersione nella realtà. Quel che ci fa ridere è una serie di situazioni che non eccedono mai nell’assurdo e nel grottesco, ma rispondono a uno standard di verosimiglianza e plausibilità che consente allo spettatore di avvicinarsi allo schermo e di empatizzare con quanto succede ai protagonisti.

Chiedimi se sono felice, in particolare, è un affresco a tinte color seppia (che comunica ancor più nostalgia del bianco e nero) della Milano che si appresta a entrare nel nuovo millennio. Una città che oggi è completamente scomparsa; una città che nel film è già una metropoli cosmopolita, ma, ciò nonostante, nasconde ancora un microcosmo popolato di piccole storie da raccontare.
E in questa stessa direzione – guardando malinconicamente a qualcosa che sembra vicino e lontano allo stesso tempo – si muove il nuovo lavoro del trio, Odio l’estate.

Ora, non è mio obiettivo farne una recensione, anche perché sono privo degli strumenti critici per portare a termine un così oneroso compito. E la verità, in questi casi, pare più sfumata ed eterea che mai. Perciò, prendete ciò che segue come una dichiarazione di stima e di rispetto irriducibilmente soggettiva.

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Odio l’estate è un inno alla nostalgia, non c’è dubbio. Aldo, Giovanni e Giacomo si guardano alle spalle e, con una serie di palesi citazioni e di situazioni topiche, ricordano agli appassionati che cosa hanno fatto e sono ancora in grado di fare.
Calati nuovamente in una realtà quotidiana ben precisa, i tre amici danno sfogo alle particolarità che li hanno sempre contraddistinti, con alcune piccole aggiunte: Giovanni è il pignolo pedante che fatica a trovare le parole giuste; Giacomo il professionista distinto con problemi relazionali; Aldo il pigro assenteista con una punta di ipocondria.

Le occasioni comiche sono qualcosa di più di semplici siparietti e sketch, ed emergono quasi sempre dal conflitto tra le personalità, sempre intente ad affermarsi, ma mai – e qui sta uno dei maggiori pregi del film – del tutto chiuse al cambiamento, all’avvicinamento, alla maturazione.
I tre protagonisti, che sviluppano una forte amicizia nel corso del film, si scatenano sfruttando i topoi che li hanno consacrati di fronte al grande pubblico: il viaggio in macchina, la partita di pallone sulla spiaggia, una conversazione su un letto d’ospedale.

Tuttavia, come il trio ci ha spesso insegnato, la risata non è mai fine a sé stessa, bensì nasconde un messaggio di diversa natura che spinge ad andare oltre le barriere del comico, come una carta dei tarocchi che smaschera un segreto a lungo celato.
La “dura consapevolezza”, di cui parlava Tolkien e che, anche in questo caso, alimenta in maniera efficace la “fantasia creativa” del trio, si arricchisce di nuovi significati, avvicinandosi a quella lettura esistenzialista della vita che era già emersa nelle prime tre grandi pellicole, specialmente in Chiedimi se sono felice.

La voce narrante di Aldo accompagna in un viaggio che ci fa assaporare, in poco meno di due ore, le complesse e contrastanti sfaccettature della vita: la spensieratezza della gioventù, le difficoltà dell’essere genitori, il rimpianto per una possibile carriera di successo, l’angoscia e la paura di fronte alla malattia, l’importanza di dichiarare il proprio affetto.

Odio l’estate ci mette di fronte a tutto questo, rompendo idealmente la quarta barriera e dicendoci: “Guardate che è la vita ad esser così, un po’ commedia, un po’ dramma”. E, insieme, ci costringe a un cambiamento di prospettiva quanto mai difficile: se è vero, infatti, che si entra nella sala per ridere, è altrettanto vero che, una volta calato il sipario, quel tremendo nodo alla gola non se ne va affatto, facendoci sentire un po’ più consapevoli e decisamente sopraffatti.

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