Orta San Giulio: un idillio da raccontare

«Potrei credere solo a un dio che sapesse danzare. E quando ho visto il mio demonio, l’ho sempre trovato serio, radicale, profondo, solenne: era lo spirito di gravità, grazie a lui tutte le cose cadono. Non con la collera, col riso si uccide. Orsù, uccidiamo lo spirito di gravità. Ho imparato ad andare: da quel momento mi lascio correre. Ho imparato a volare: da quel momento non voglio più essere urtato per smuovermi. Adesso sono lieve, adesso io volo, adesso vedo al di sotto di me, adesso è un dio a danzare, se io danzo».
(F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, 1883-1885)

Il tepore di una giornata di primavera abbraccia le case in muratura del centro. Sul litorale, lo scintillio dell’argenteria colora di luce le punte increspate delle onde del Cusio.
Affaccendati per la veranda tutta colma di visitatori, i camerieri dell’albergo Leon d’Oro si esibiscono in una sfilata di portate deliziose e di calici senza fondo. A un tavolo – un semplice tavolino rotondo con tovaglia bianca, che invita lo sguardo dell’ospite ad ammirare il piccolo scrigno di San Giulio – siede una comitiva di amici.
Il più anziano dei tre se ne sta, inquieto, a mirare il paesaggio, passandosi i lunghi baffi tra le dita e contemplando, di tanto in tanto, come preso da estasi improvvise, il volto affascinante e giovane dell’unica donna del gruppo. Non fa che pensare e pensare e pensare… Rimugina sul suo lavoro, certo, ma si tormenta soprattutto su un episodio accaduto il giorno prima.

Siamo agli inizi del maggio 1882
Friedrich Nietzsche, insieme all’inseparabile Paul Rée, arriva nel borgo di Orta San Giulio, dove s’incontra con Lou von Salomè, una promettente studiosa russa poco più che ventenne. Ad accompagnarla c’è la madre.
Il grande filosofo è in preda a un forte sentimento e fatica a trattenere le sue emozioni. Qualche tempo prima, a Roma, aveva chiesto alla giovane di sposarlo, ma ne aveva ricevuto un rifiuto. La speranza, però, non aveva cessato di muovere il cuore di Nietzsche, sicché, proprio sulle sponde del lago d’Orta, le pie illusioni e le gaie ambizioni erano destinate a riprender vita.

Lo storico albergo Leon d’Oro, dove nel maggio 1882 soggiornarono Nietzsche, Rée e Salomè

Tra il 5 e il 7 maggio, Nietzsche e Salomè vivono il loro idillio. Almeno questo era quello che pensava il filosofo. Una comunione d’intenti filosofici e letterari che culmina nell’esplosiva condivisione del sentimento: nulla di più affine allo spirito nietzschiano, si direbbe. Eppure, il «trionfo degli amanti» – se mai si compì – deve aver avuto vita assai breve. Fu una fugacissima danza, scevra dello «spirito di gravità». Il furore di un bacio rubato, nel corso di un lungo soffermarsi tra gli affreschi e le statue del Sacro Monte, presto lascia spazio al rammarico e alla delusione. Nietzsche comprende che l’amore per Salomè è destinato a non ricevere restituzione alcuna.
Anzi, la giovane russa, mostrando ambiguità e persino una certa indifferenza, dirà, nelle sue memorie, di non ricordare se aveva o non aveva baciato Nietzsche sul Sacro Monte. Le sue preoccupazioni, rivelerà, erano tutte per la madre, lasciata alla compagnia del solo Paul Rée, che molto s’era risentito per il ritardo degli amici.
Non ci sono tracce scritte che attestino l’effettivo accadimento. Sappiamo solo che di lì a poco tempo l’interesse di Salomè per Nietzsche – esclusivamente intellettuale, se ne potrebbe dedurre – sarebbe svanito e, con esso, se ne sarebbe andata anche l’amicizia tra Nietzsche e Rée, a sua volta innamorato della giovane.

L’idillio di Orta si conclude, pertanto, in un fallimento sentimentale, ma, al tempo stesso, lascia in eredità un’opera che avrebbe rivoluzionato il modo di concepire la filosofia negli anni a venire. Sulle sponde del Cusio, infatti, tra i tormenti d’amore e le lunghe camminate, prende vita il grande eroe nietzschiano, l’übermensch destinato a redimere quel «gregge» che è l’umanità: il profeta Zarathustra.
Il lettore, a questo punto, può giustamente chiedersi: se l’amore di Nietzsche avesse trovato nel cuore ancora immaturo di Salomè un dolce porto ove attraccare e ricevere eguale sentimento, avremmo noi potuto godere delle stesse incandescenti pagine, degli stessi sempiterni moniti?

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Il centro di Orta San Giulio è un brulicante via vai di turisti. Inevitabile, se si guarda alla sua storia o alla sua ubicazione: un borgo d’origine medievale posto sulla sponda orientale di un piccolo bacino lacustre, tra il novarese, i rilievi del Cusio e la Val d’Ossola, non troppo lontano da quel Lago Maggiore che, con Arona, Stresa e le isole Borromee offre un interessante crocevia di storia, arte e natura tra Piemonte, Lombardia e Canton Ticino.
Mentre scendiamo lungo i tornanti che portano al primo parcheggio disponibile, ci ritroviamo a confronto con una magnifica sequela di ville, giardini e aree verdi più o meno estese. Sequela che culmina nella raffinatezza moresca di Villa Crespi, storica dimora ottocentesca costruita per volontà di Cristoforo Benigno Crespi.
Costui fu imprenditore di talento, collezionista di opere d’arte e moderno mecenate, ma soprattutto fu membro di spicco di quell’illuminata famiglia lombarda, leader dell’industria tessile italiana tra Ottocento e Novecento – ne è mirabile testimonianza il villaggio operaio di Crespi d’Adda, dal 1995 patrimonio dell’UNESCO.
La villa, un tempo celebre per i suoi marmi e per l’orientaleggiante minareto che la domina, oggi è nota soprattutto nell’ambito della gastronomia d’alto livello, giacché, dalla fine degli anni Novanta, l’hotel e il ristorante sono affidati alle mani dello chef napoletano Antonino Cannavacciuolo.

Per quanto il pensiero di immergersi nel lusso della grande cuisine sia allettante, il buon senso – o un certo “economico” amor proprio – impone di superare le fini decorazioni degne di un alcázar andaluso, per gettarsi, con spirito esplorativo, tra le strettoie e i vicoli del piccolo borgo sul lago.
Una volta lasciato il parcheggio, infatti, prendiamo una dolce e breve scalinata che ci accompagna, senza eccessivi indugi, nel cuore di Orta San Giulio. Dalle grezze mattonelle sui tetti agli archi e alle gallerie, il nostro primo incedere è all’insegna di una involontaria, ma precisa geometria degli spazi: incastonato tra i muri di vecchie case, recinti e parapetti volti su giardini secolari, il visitatore si ritrova a passeggiar sospeso in un limbo, come se la Storia avesse aperto una parentesi, dimenticando, per un istante, il presente e gettando tutti in un eterno passato. Superata la pittoresca stretta del Bolzano, il passo s’arresta di fronte alla fiumana che inonda la lunga via Olina, centrale passerella che, tra café, ristoranti stellati, bistro e boutique, conduce fino a Piazza Motta, ove, per un attimo, il respiro si ferma.
Appena inebriato dal profumo di pane che aleggia sui vicoli perpendicolari alla piazza, l’animo del visitatore si riempie di stupore e meraviglia, perso com’è a osservare il lieve dondolio dei battelli legati al molo, il tintinnare di bicchieri e posate sulla celebre veranda dell’albergo Leon d’Oro, il calpestio ritmato dei turisti e della gente di paese. All’improvviso, il richiamo del battelliere evoca la baraonda dei flâneurs, li ammassa sulle delicate assi di legno del porticciolo, li distribuisce e li affida sapientemente alle cure della sua inseparabile imbarcazione. In un batter di ciglia, è tutto fatto: i biglietti sono consegnati, i posti sono esauriti, il motore è acceso. L’indomito battello sfida le fievoli onde del Cusio e punta all’isola di San Giulio.

Il centro di Orta San Giulio visto dal battello per l’isola

Non c’è frenesia nel cuore di chi scopre un luogo per la prima volta. La gioia per qualcosa che riempie lo sguardo di luce nuova è troppo grande per piegarsi alle preoccupazioni del Tempo. Così l’Abitudine cede all’irrompere di una curiosità inesauribile e il mondo assume per noi un volto del tutto diverso. Ecco il vero senso del viaggiare, ecco il senso degli «occhi nuovi» di cui parlava Marcel Proust, ecco il significato della via del silenzio che percorre l’isola di San Giulio.
Approdare qui è come entrare in una dimensione dove la parola perde i significanti e si mostra come puro concetto, che non necessita di alcun suono per essere espresso. La Basilica accoglie e comunica il suo splendore, anche da dietro un portone chiuso e mura solide, sicché il pellegrino si scopre invitato a proseguire oltre, tra edera rampicante e aforismi di facile consumo, fino a raggiungere un nuovo, imperdibile monumento. Dai suoi larghi fianchi finestrati e dalle statue che ne decorano il tetto, l’Abbazia Mater Ecclesiae appare fin da subito come austera celebrazione della vita devota. Appena oltre il cancello, un monito non lascia spazio a interpretazioni: «Questo non è un luogo turistico».
Anti-moderno, rivoluzionario, astorico, il silenzio è instrumentum regni per chi ha consacrato la propria esistenza a un abito monacale e a una condotta pia. L’abbazia, infatti, è un insediamento di clausura femminile. Un’abbazia benedettina, per la precisione. Qui, oltre a offrire ospitalità a tutti coloro che ne hanno bisogno, l’ordine si impegna in attività di grande prestigio intellettuale e spirituale, ma anche artigianale e produttivo: ricerche, traduzioni, studi di antichi volumi, restauri, realizzazione di icone sacre, filatura di tessuti preziosi con tradizionali telai a mano.
L’abbazia, votata al culto e, insieme, alla praticità della vita monastica, offre un interessante parallelo storico – in termini di forme di devozione popolare – con quanto, invece, s’incontra sul Sacro Monte di Orta.

Una della cappelle del complesso monumentale del Sacro Monte

A dominare, sul colle, non è tanto il riserbo o l’intima chiusura dell’animo teso al raggiungimento di una privata comunione col divino. Per il lastricato che risale dal centro fino alla cima del basso promontorio, a tutto ciò si sostituisce la humilitas dell’abito francescano. Tanto placida quanto inevitabile, si afferma la concordia con gli elementi della natura. In un crescente trionfo di verde, il complesso del Sacro Monte accoglie il flâneur ormai spoglio dell’abito materiale e già indotto a una più profonda armonia con le creature.
Sulla spinta della Controriforma, il Sacro Monte ortense vide la luce nel 1583, unico, tra i progetti in atto, a consacrarsi interamente a un santo come Francesco d’Assisi, che, alter ego del Cristo, modellò la propria vita su quella di Gesù. E proprio della vita del Santo narrano le venti cappelle, realizzate nell’arco di due secoli, e impreziosite da sculture e affreschi mirabili, opera in larga parte di artisti piemontesi e lombardi.
Il percorso, tanto agevole nel suo sviluppo naturale, si rivela una discesa nella propria interiorità, facilitata sì dalle dita del santo che, sulle pareti dei piccoli santuari, indicano la direzione da seguire, ma inevitabilmente complicata dall’irrompere del sentimento.
Come non commuoversi, in effetti, di fronte alla magnifica volta della cappella XIII (San Francesco per umiltà si fa condurre nudo per le vie di Assisi), dipinta da Giovanni Battista e Gerolamo Grandi di Varese e da Federico Bianchi? L’intensità del colore, la dinamicità delle figure, l’armonia del coro di angeli che esultano di fronte al trionfo dell’umiltà di Francesco, in un dialogo incessante tra forme d’arte. Forme supreme di agiografia, scultura e affresco si uniscono qui, tra pareti e pavimento, in una sola grande narrazione: la vita esemplare del Santo.
E di certo il visitatore consapevole può sorridere al pensiero che, su questi e su altri dipinti, – come quelli settecenteschi del milanese Federico Ferrari (nella cappella XIV dedicata all’incontro tra Francesco e Melek-el-Kamel, sultano d’Egitto) – si sia posato lo sguardo inquieto di Nietzsche, oppure abbia rivolto un’occhiata distratta la giovane Salomè. È facile pensare, infatti, che il loro «idillio» sia passato per queste vie, che sono le vie della contemplazione estetica, dell’innocente godimento di arte e natura, del dolce e sempre fruttuoso pensar camminando.

Il sole del meriggio riscalda i ciottoli, mentre una brezza leggera agita le fronde degli abeti e degli agrifogli che riposano sul colle. Il canto degli usignoli completa il quadro di pax francescana.Per noi, però, è tempo di lasciare il Sacro Monte e dirigerci sulla sponda opposta del lago, dove svetta, a picco sul vuoto, il Santuario della Madonna del Sasso. Eretto al di sopra di un enorme sperone granitico, esso domina il lago e guarda, senza timore, la Basilica e l’Abbazia di San Giulio.

Il Santuario della Madonna del Sasso visto da Orta San Giulio

Dopo aver passato, senza colpo ferire, il centro di Omegna e aver districato la matassa dei tornanti che volgono all’insù fino alla frazione di Boleto, il visitatore giunge, comodo e senz’affanni, di fronte al piazzale che ospita il complesso monumentale. Qui, tra un chiosco e un’area di sosta, una piccola folla s’è radunata, desiderosa di scattare una foto con il panorama sensazionale del lago alle proprie spalle o, per i più eversivi, di passeggiare, silenziosamente e al riparo dai dispositivi, lungo le navate della chiesa.
Più dell’architettura – ordinariamente settecentesca – risplende il colore vivo della volta affrescata, opera del pittore valsesiano Lorenzo Peracino, già apprendista nei cantieri del Sacro Monte prima di dedicarsi al santuario. Splendida protagonista è Maria, non più semplicemente mater Christi, ma regina coeli, ora che è assunta in paradiso e, appoggiata su una nuvola, viene incoronata, mentre un’orchestra d’angeli intona una melodia celebrativa con organo, archi e fiati. Il tutto accompagnato da particolari quasi raffaelleschi – gli angioletti che volano, spensierati, a poca distanza dal “trono” richiamano vagamente quelli della Madonna Sistina (1513-1514).

La volta affrescata del Santuario della Madonna del Sasso

Il tesoro custodito all’interno del Santuario sembra quasi voler trattenere l’attenzione del visitatore che, in circostanze meno interessanti, sarebbe tutto volto alla contemplazione degli spazi esterni, con i suoi panorami e i suoi strapiombi. Qui, invece, la vera tentazione è restare all’interno, carpire i segreti di quel trionfo empireo e trarne un messaggio, un valore o un simbolo per il mondo terreno.

Orta San Giulio, il Cusio, il Sacro Monte, la Madonna del Sasso: elementi inestricabili di un puzzle intarsiato nel reale. O, per meglio dire, collocato nel preciso punto di congiunzione tra reale e ideale, tra natura e cultura, tra terreno e celeste. Sintesi di elementi non opposti, ma complementari. In definitiva, un’immersione nella compiutezza di un paesaggio che si fa arte e Spirito.

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