Cultura

«Un’orribile pellicola di cattiva coscienza»: La fornace di Thomas Bernhard

Risale a pochi giorni fa la pubblicazione per Adelphi del romanzo di Thomas Bernard, La fornace (Das Kalkwerk), opera comparsa in prima edizione per la casa francofortese Suhrkamp Verlag nel 1970.

A dire il vero, quello sul mercato italiano non è un esordio, bensì la riproposizione di un testo che era giù uscito nel 1984 per i “Coralli” di Einaudi con la traduzione di Magda Olivetti[1] e che, nel tempo, era finito nel baratro divoratore dei libri fuori catalogo.  
Adelphi, sulla scia di una folta e continuativa pubblicazione dell’opus bernhardiano, ripropone ai lettori, nella sua prima (e unica) traduzione, uno tra i romanzi più intensi dell’autore austriaco.

Malinconico cantore del male che affligge tutti gli ingegni più originali – vale a dire la solitudine – Thomas Bernhard (1931–1989) seppe occupare un posto di prestigio nella storia della letteratura mitteleuropea contemporanea. Anima inquieta, efficace tanto come romanziere quanto come poeta e drammaturgo, egli fu autore dalla mano decisamente peculiare. Nei suoi romanzi, la narrazione è sovente dominata da uno stream of consciousness per così dire “razionalizzato”, molto diverso da quello sregolato e impetuoso di matrice joyciana. In Bernhard il regolare fluire della parola, incastonato nelle forme del monologo, diviene strumento ideale per restituire, nella sua piena efficacia, il più vivo e drammatico senso di isolamento del singolo. E, nello specifico, del singolo osteggiato dalla massa.          

In questo senso Das Kalkwerk risponde perfettamente alla prerogativa del suo autore: tra le righe del romanzo, si svela una dettagliata indagine sull’ossessione e sugli influssi allucinatori di un ambiente malsano, che raggruppa attorno a sé le peggiori manifestazioni del reale. Manifestazioni che, spesso, oltrepassano il confine dell’umano, aggiungendo violenza a violenza, maniacalità a maniacalità.

La fornace di Sicking, luogo entro il quale si svolgono i fatti esterni (l’assassinio della signora Konrad da parte del marito) e quelli interni (la discesa psichica dello stesso signor Konrad nella disperazione e nella follia), non viene rappresentata da Bernhard come semplice ambientazione o contesto, ma diviene essa stessa protagonista, elemento a tutti gli effetti vivente di una narrazione che la vede sempre attiva, impegnata, coi suoi vasti spazi vuoti e l’atmosfera desolante, a condizionare gli eventi e a plasmare l’anima criminale del personaggio Konrad.

© Adelphi, 2022

Le sventurate vicissitudini dei coniugi Konrad vengono inseriti da Bernhard all’interno di un quadro confusionario di voci, pensieri, dicerie, verbali, sospetti, dichiarazioni che si spargono per la città. L’efferato uxoricidio – di questa moglie-sorellastra, un tempo bellissima, ora costretta alla sedia a rotelle – non viene mostrato nel suo effettivo accadere, non occupa la scena del romanzo come il clou di una tragedia shakespeariana, ma, al contrario, viene riferito per via indiretta, sussurrato, modificato, distorto dalle varie fonti e poi inevitabilmente riportato all’attenzione del lettore. Nelle varie taverne del paese, dai locali di Wieser, Laska e Fro si diffonde la notizia del terribile accadimento. Il signor Konrad, che viveva nella fornace di Sicking, ha ammazzato la moglie con un colpo di carabina Mannlicher, per poi nascondersi in un pozzo e attendere il sopraggiungere della polizia. Questa è l’unica notizia certa. Tutte le ipotesi sul movente, sui fatti che hanno preceduto il delitto, sui pensieri dello stesso Konrad, vengono accumulate e suddivise a seconda della voce che li riporta. Sia essa affidabile o meno.           

Nel corso del romanzo, questa pluralità di rumores verrà mantenuta fino alla fine, infondendo nel lettore l’idea di una verità instabile, precaria, malleabile. A volte i discorsi riportati del protagonista convergono in una sola direzione, altre volte deviano, come intrappolati in un labirinto, prendendo sentieri che, borgesianamente, si biforcano.      

Ma, sullo sfondo, resta la presenza ossessiva della fornace.           
Konrad ha lottato strenuamente per impossessarsene, convinto che sarebbe stata l’ambiente ideale per portare a compimento la sua memorabile impresa: la stesura di un saggio monumentale, intitolato L’udito. Un lavoro spossante che lo priva di ogni energia e che Konrad riversa direttamente sulla moglie, testando (con il terribile metodo Urbantschitsch) le risposte di quest’ultima a ripetuti e incessanti stimoli uditivi.    

Ed è proprio la ripetizione – che si mostra, quasi psicoanaliticamente, come “coazione a ripetere” – il nucleo centrale dell’opera, sia sul piano stilistico che sul piano tematico.
La relazione coniugale è tutta all’insegna della reiterazione di gesti quotidiani che si succedono nella loro opprimente identità giorno dopo giorno, amplificando l’impressione di disagio e acuendo ogni contrasto. I test uditivi con la riproposizione di dati suoni per verificare le reazioni della moglie, la lettura, alternativamente, di un’opera del filosofo Kropotkin (detestata dalla signora, ma adorata dal protagonista) o dell’Enrico di Ofterdingen di Novalis (il libro preferito di lei), il delicatissimo cambio di vestiti…       

Negli ampi e freddi saloni della fornace tutto riecheggia e tutto si ripete. Gesti, parole, abitudini e comportamenti. E questa ripetizione ossessiva non fa che condurre lentamente Konrad alla più maniacale e disperata follia.          
Sul piano narrativo, questa pervasiva ossessività è resa alla perfezione dal pattern regolare e intensivo di ripetizioni dei sintagmi, che creano un effetto cantilenante e accompagnano il lettore nella morbosità del pensiero di Konrad. Si pensi, tra i tanti possibili esempi, a quel passaggio del romanzo in cui le parole “mobili e suppellettili” compaiono più di dieci volte in poco meno di una pagina.        

Questa continuo ritorno del medesimo pensiero, che diventa fissazione, tamburellante come un piccolo strumento di tortura, non fa che rivelare il carattere più intimo della fornace: un luogo di clausura, una prigione scelta deliberatamente e, dunque, ancor più oppressiva. L’auto-clausura a cui si sottopone Konrad (e a cui sottopone la moglie) genera una immediata e irresistibile disposizione alla violenza: «…la fornace sembrava predestinata ai crimini violenti, era un vero e proprio invito a commettere simili crimini» (p. 40). E poi ancora: «Aver messo piede nella fornace vuol dire, senza dubbio, aver messo piede in una trappola» (p. 85).    
Un luogo in cui solo «i matti possono vivere», in cui «bisogna sempre essere armati», perché in ogni istante può avvenire un crimine violento. La fornace, dunque, è un agente criminogeno. Pervade di delittuosità tutto ciò che vi si addentra. Soffoca e corrompe, infine distrugge: «La fornace […] significava l’annientamento totale di Konrad» (p. 189).

A un certo punto della lettura, ci viene posto l’interrogativo dell’origine della mostruosità di Konrad. Ma l’eterna riproposizione dell’Unde Malum, questione assai complessa da dirimere, qui trova pronta risposta nell’invasività del «mondo circostante», nel criminoso influsso dell’Umwelt. È la fornace che genere l’inclinazione alla violenza, che determina il pervertimento della humanitas, che, in definitiva, spezza l’equilibrio della coppia.
E la ripetizione ossessiva, coatta, dell’azione quotidiana diviene chiaro sintomo della invivibilità della Kalkwerk, luogo di morte, dove prospera la «cattiva coscienza» e dove il vivente, alla fine, si disgrega.


[1] Germanista, fisica e traduttrice, Magda Olivetti, nipote del celebre industriale delle macchine da scrivere, Adriano Olivetti, tradusse per Einaudi e Adelphi opere di Robert Musil, Rainer Maria Rilke, Arthur Schnitzler.

Immagine di copertina:
Thomas Bernhard nel 1976, © Afp

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