Οὖτις: il vantaggio di essere Nessuno

Editoriale del 24 Agosto 2021 (in copertina: Nostalghia, A. Tarkovskij, 1983)

Spesso si dice che un libro non dovrebbe esser giudicato dalla copertina. Vero, ma, per rendere più completa quest’affermazione – piuttosto banale, a dire il vero – occorrerebbe aggiungere che il giudizio non deve fermarsi nemmeno al titolo. Questo perché, sotto frontespizio e intestazione, si celerebbe un intero mondo,  decisamente impossibile da cogliere nell’immediato.

La verità è che ogni titolo, se di qualità, finisce inevitabilmente per colpire. Cattura la nostra attenzione e si fissa, come un mantra, nella memoria, dimodoché, anche qualora volessimo tornare indietro, non potremmo più dissociare quelle poche parole alla storia che da esse viene anticipata.

Tra questi titoli accattivanti ce n’è uno che ho sempre ritenuto efficace al massimo grado, e non solo perché s’accompagna a una delle più grandi opere letterarie del Novecento. Si tratta de L’uomo senza qualità, titolo di un romanzo estremamente denso – di pagine e di concetti -, scritto dall’autore austriaco Robert Musil, ma mai terminato. Come molte opere del medesimo periodo (tra cui la Recherche di Marcel Proust), anche il romanzo in questione ebbe uno sviluppo travagliato e faticoso che svuotò il suo ideatore di ogni residua energia. Quel che, però, mi ha sempre colpito in maggior misura è la straordinaria autosufficienza del titolo, la sua capacità di individuare fin da subito il nucleo tematico e la natura profonda di ciò che i lettori avrebbero incontrato pagina dopo pagina.

Con Musil l’uomo mediocre, privo di abilità o interessi particolari, saliva sul palcoscenico del romanzo novecentesco. Non un residuo della società come poteva essere il povero emarginato caduto in disgrazia, né l’eccellenza aristocratica da vantare ed esibire con cerimonie e sfarzo, bensì l’individuo reso invisibile dall’assenza di meriti, cancellato dalla Storia per via di quella sua insopportabile tendenza alla medietas. Ecco, per questo singolo uomo, vittima di una società che impone gli estremi (nell’uno o nell’altro senso), io ho sempre provato una comoda simpatia.

Il tormento della mediocrità, nella quale sono sempre stato immerso e dalla quale ancora fatico a svincolarmi, è quanto di più insopportabile ci sia oggi per una persona che ambisce a costruire una sua storia, originale e povera di banalità.

Eppure, per la prima volta dopo tanti anni trascorsi a riflettere sulla difficoltà di questa condizione, mi trovo a dover rovesciare il mio punto di vista. In questa modernità che impone un’esibizione continua del sé[1] dettata dal primato della notorietà visuale e dal «capitalismo del like» (B.C. Han, 2014), scoprirsi invischiati nel pantano della mediocrità potrebbe non essere più semplicemente una condanna all’oblio e all’insuccesso, ma, paradossalmente, potrebbe offrire una via d’uscita dal meccanismo perverso d’incessante esposizione al pubblico e di relativa dipendenza dal giudizio del network.

Se non sei stato capace di costruirti una community di seguaci, infatti, è abbastanza evidente che ogni tua azione virtuale sia destinata a passare sotto silenzio o, comunque, a raggiungere un numero piuttosto limitato di contatti (spesso e volentieri, persone fidate, che, conoscendoti di persona, hanno una relazione autentica e personale con te). Questo significa che, ogni volta che ti esponi (perché, parliamoci chiaro, oggi è francamente impossibile evitarlo al 100%), le tue parole, le tue idee, i tuoi contenuti restano comunque all’interno di una rassicurante zona di comfort, lontano dalle critiche, dal flame e dalle opinioni non richieste di utenti sconosciuti che non hanno la benché minima idea di chi tu sia.  

Personalmente, come scrittore e studioso, sono felice di non essere importante, se la fama si misura in termini di visibilità. Il fatto di non ricoprire alcun ruolo di spessore all’interno di una certa comunità virtuale mi lascia ampi margini di libertà. Non sono vincolato a nessun dogma. Se esprimo un’opinione estrema o impopolare, nessuno mi bannerà o mi ostracizzerà[2]. Io sono libero di scrivere ciò che voglio, perché non conto nulla.

Mi sia concesso un esempio. Da qualche tempo collaboro con un gruppo di appassionati e di studiosi che si occupano di divulgazione e ricerca nell’ambito degli studi su J.R.R. Tolkien. Ora, quello entro cui si dispiegano questi studi è un vero e proprio campo minato. A ogni singolo passo il rischio è di mettere il piede su di un ordigno inesploso e saltare in aria insieme a tutte le tue congetture. Nulla ti è concesso, nulla ti è perdonato.

Io però – lo dico con candida franchezza – in questo ambito non sono nessuno, né ho la pretesa di diventare chissà chi. Non sono tesserato per nessuna associazione, non ho scritto monografie su Tolkien, non ho speso una fortuna per costruire una biblioteca ricolma di volumi che nessuno, a parte me, leggerà mai. Insomma il mio apporto alla ricerca è pressoché nullo agli occhi del Gotha degli studiosi tolkieniani.

Che cosa significa questo? Che non vale la pena leggere, fare ricerca e scrivere, se il mio lavoro, non essendo letto da nessuno, non darà alcun contributo concreto? Non credo proprio. Del resto non era lo stesso Tolkien che elogiava gli Hobbit proprio per la loro capacità di passare inosservati agli occhi dei Grandi?
La mia idea è che il valore di uno studio non si misura in termini di visibilità, di esposizione, di ottimizzazione (SEO), quanto di originalità, coerenza, densità tematica, ricchezza di fonti e rispetto dell’autore e delle opere consultate. Finché ciò che scrivo sarà supportato da questi requisiti di fondo, non avrò alcun problema ad andare avanti nel mio percorso di lettore-autore. E sarò tanto più stimolato a farlo quanto più sarò libero di muovermi come preferisco, giacché, come s’è detto, non ho alcun vincolo. E di quest’assenza di vincoli, forse, solo l’uomo senza qualità può davvero usufruire fino in fondo, senza doversi preoccupare delle conseguenze.


[1] Un sé  fittizio, costruito in rete, ergo un sé virtuale.

[2] Naturalmente, questo vale per tutte quelle posizioni che, pur avendo in sé il potenziale per generare polemiche, non violano la netiquette né la policy delle principali piattaforme di condivisione di contenuti multimediali.

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