Scrivere in una modernità senza narrazione

In qualità di insegnante, sovente mi interrogo sulle potenzialità delle attività di scrittura nel contesto d’apprendimento di una lingua seconda. La produzione scritta è, per l’allievo non madrelingua, una delle abilità primarie da sviluppare nel lungo processo apprenditivo.
Tradizionalmente considerata ostica da insegnare, perché esige dallo studente una certa capacità di elaborazione e organizzazione concettuale, la scrittura è stata rivalutata in positivo negli ultimi anni, se è vero che la tendenza della glottodidattica contemporanea è quella di proporre piccole attività di composizione fin dai primi livelli di conoscenza della lingua. Di conseguenza, non è affatto raro trovare degli esercizi finalizzati alla produzione di brevi frasi, poesie o didascalie nei manuali dedicati al livello A1.

Tuttavia, l’evoluzione – o, a seconda dei punti di vista, involuzione – della società moderna impone una riflessione su quanto i task di composizione siano adeguati ai tempi e, a fortiori, sul significato della scrittura come strumento d’espressione artistica. In effetti ci si può chiedere: ha ancora senso, nella società della comunicazione rapida e trasparente, esigere dai propri alunni la stesura di un tema? E, andando più in profondità, c’è ancora ragione di addentrarsi nella lentezza della narrazione in una realtà ormai de-narrativizzata?

Il filosofo sudcoreano, Byung-Chul Han, allievo di Peter Sloterdijk e acuto osservatore dei mutamenti in atto sul piano economico, sociale, psicologico e relazionale, individua nell’affermazione di valori come trasparenza, accelerazione, prestazione una delle cause dello svuotamento di senso a cui la modernità sta andando incontro.
Secondo Han, l’imperativo di una società fondata sull’iper-comunicazione è quello di rendere trasparente qualsiasi tipo di flusso: di informazioni, di capitali, di parole, di immagini, di relazioni, di emozioni. Di fronte all’obbligo di assoluta visibilità, qualsiasi tipo di segreto, velatura, opacità deve essere abolito, cosicché il reale finisce per essere esibito nella sua nudità.

La comunicazione trasparente è un flusso che non prevede interruzioni o esitazioni, non rallenta mai per interpretare o decodificare un passaggio complesso, perché tutto è già mostrato, disvelato, semplice e comprensibile fin dal primo sguardo. Va da sé che anche i rapporti intersoggettivi sono tutti giocati su questa rapidità di scambio che rende l’alterità immediatamente riconoscibile. A prescindere dall’identità degli interlocutori e dal contesto comunicativo, noi sappiamo già chi è l’Altro: abbiamo visto il suo profilo Facebook, abbiamo letto la sua biografia su Wikipedia. La tensione e il negativo del primo incontro con l’Altro sono scomparsi: l’Altro non ha più segreti per noi, non è più davvero Altro; al contrario, è solo l’ennesimo Sé dello sciame digitale[1]. Anonimo protagonista di una dimensione virtuale in grado di invadere e dominare il reale, membro di una moltitudine di individui isolati e incapaci di agire come collettività.  L’ennesimo minuscolo Io che non sa dire noi.

Allora questa comunicazione, che non è più vero scambio di “conoscenze” tra un Io e un Altro[2], si mostra come mero fluire di informazioni. La società della comunicazione trasparente è una società dell’informazione continua, in cui non c’è tempo per approfondire o indagare, ma si continua ad accelerare verso un accumulo di definizioni, aneddoti e curiosità usa e getta. Poiché la tensione alla ricerca è stata soppiantata dall’accessibilità senza limiti, ogni informazione lambisce la superficie della nostra memoria come un idrovolante a filo d’acqua: viene colta e, non avendo la possibilità di consolidarsi in un ricordo, poco dopo sfugge. Questa accelerazione senza sosta rende di fatto impossibile operazioni fondamentali del pensiero critico come concentrarsi sul dettaglio inusuale, problematizzare un concetto, individuare i riferimenti simbolici di un’immagine. Nella moltiplicazione informativa, parole e immagini perdono rispettivamente i loro significati connotativi e i rimandi iconici, mostrandosi piuttosto come mere denotazioni e mere istantanee. 

Nel fiume di informazioni, la scrittura si deve adeguare da un lato alla rapidità del flusso, dall’altro al deficit d’attenzione dei riceventi.  La società della performance trasparente e veloce richiede una scrittura che sia efficace, subitanea, priva di mediazioni. Non ci devono essere riferimenti da cogliere al di sotto della superficie, perché chi s’avvicina al testo non ha il tempo di leggerlo, ma può solo sorvolarlo. In questa società della trasparenza, il lettore scompare e al suo posto subentra il sorvolatore. Costui non può addentrarsi tra le righe, non ha i mezzi per comprendere i simboli, la sua capacità di prestare attenzione gli consente solo di arrivare al livello più accessibile: non legge, ma scorge solo una successione di parole. Allora, per esser comprensibile a questo sorvolatore medio, la scrittura rinuncia alla lentezza e alla profondità. Abolisce ogni segreto, ogni maschera elusiva e allusiva, rinuncia all’esclusività dell’arte per esporsi al pubblico come sequenza additiva di informazioni: come afferma Han, la scrittura nella società della trasparenza, dell’accelerazione e della performance non è più in grado di «produrre il totalmente Altro, il Singolare. La scrittura trasparente combina informazioni in modo puramente additivo»[3].

Inserita in questo sciame digitale, che costringe all’esposizione continua e alla ricezione acritica, la scrittura, per sopravvivere, si spoglia del suo abito narrativo e si mostra come nudo testo espositivo. Anche la fiction muta in un’esposizione di eventi, parole, personaggi e intrecci senza profondità.  Il procedimento narrativo perde la «coreografia» e la «scenografia» che gli sono proprie[4].
Intrappolata in una società che esige solo l’essenziale e il positivo, la scrittura rinuncia ai suoi ornamenti narrativi, lo stile si fa scarno ed eccessivamente paratattico: il narrare fluido, ipotattico e introspettivo lascia spazio a una serie consequenziale di «punti», ognuno associato a un evento, dialogo o personaggio, immediatamente percepibile e riconoscibile. Il lento indugiare della narrazione soccombe di fronte alla rapidità della sceneggiatura: il dialogo impera e il narratore si limita a dare poche indicazioni su dove, chi e quando. La sticomitia del teatro greco, in origine espediente narrativo con una sua funzione, ora invade il testo fino a diventare soluzione stilistica preponderante.

Lo scrittore dello sciame digitale – l’autore da Mi piace – non è più, come Marcel Proust, la «mano che scrive» nella solitudine e nell’esclusività della sua stanza da letto, ma è lo sceneggiatore che gioca con le dita, che digita caratteri sul laptop mentre se ne sta comodamente seduto a un tavolo di Starbucks. Perché possa emergere nella moltitudine, lo scrittore non può più narrare, ma deve esibire, esporre le sue parole, come pillole, punti e battute da cogliere e poi gettare via.

Dunque, la domanda è: che cosa resterà di questa letteratura de-narrativizzata che continuamente produce e continuamente viene superata da altra simile letteratura? Nulla, se non l’illusione di aver conquistato una parentesi di visibilità, rapida tanto ad aprirsi quanto a chiudersi. Allora, ha ancora senso continuare a scrivere e a proporre esercizi di scrittura ai nostri studenti? Assolutamente sì, e lo si può fare partendo dal riconoscimento di un fatto: ossia che la scrittura narrativa, in questo tempo de-narrativizzato, è un atto rivoluzionario. La costruzione di una narrazione ha tutte le potenzialità per scardinare il sistema perché porta l’autore ad affermare valori diametralmente opposti alla modernità: lentezza, riflessività, concentrazione, connotazione, simbolismo, studio, profondità. Costringe il sorvolatore a scendere dal suo aeroplano digitale e a soffermarsi sul testo, prendendosi del tempo per sé e riscoprendo l’arte di indugiare sulle cose[5] quale caratteristica imprescindibile dell’esperienza estetica.

Fin tanto che saremo ancora disposti a narrare, avremo occasione di dare valore al nostro tempo, togliendo dal flusso attimi degni di essere conservati e conferendo peso specifico al nostro esistere. Perché, come dice il ricco tetraplegico Philippe al suo estroverso tutore Driss, nel film Quasi Amici (O. Nakache, E. Toledano, 2011), l’arte «è la sola traccia del nostro passaggio sulla Terra». E di questo passaggio noi dobbiamo essere gelosi custodi, continuando a narrare e istruendo i nostri studenti a farlo con consapevolezza.


[1] B.C. Han, Nello sciame. Visioni del digitale, 2013, nottetempo, Milano, 2015, p.22

[2] Non c’è più munus in questo comunicare, perché non si dona più nulla di nuovo al proprio interlocutore, che è già in possesso di tutte le informazioni necessarie.

[3] Ivi, p. 34

[4] B.C. Han, La società della trasparenza, 2012, nottetempo, Milano, 2014 p. 54

[5] B.C. Han, Il profumo del tempo. L’arte di indugiare sulle cose, 2009,  Vita e Pensiero, Milano, 2017

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